Qualche volta le sue mani non incontravano difficoltà, e procedevano senza sforzo nel complicato lavoro di montaggio. Per esempio, il tubo che serviva ai raggi generativi era controllato da un motore a orologeria e da un sistema di ingranaggi che lo mantenevano rivolto in direzione della luna, che era appunto il riflettore naturale scelto per disperdere la radiazione sull’intera superficie del globo. Hutchman montò facilmente questa sezione ma, quando si trattò di stabilire le coordinate in rapporto ai movimenti lunari, si accorse che i numeri gli ballavano davanti agli occhi. Non riusciva a concentrarsi perché aveva momenti di debolezza, momenti in cui pensava solo a un tè bollente e a frammenti di sogni quando, per un attimo, faceva un salto all’indietro. Vicky che non voleva essere consolata dopo un litigio: Quando uno è arrabbiato, a volte dice cose che pensa sul serio. O mentre passeggiava con lei in Bond Street, e sull’altro marciapiede una donna apriva un ombrello, un punto rosso che, nella visione di Hutchman, si allargava a cerchio e gli ricordava l’approssimarsi di un missile. Lucas faceva un balzo di fianco e, in quel momento, per la prima volta, capiva perché non bisognava aprire un ombrello vicino a un cavallo. David che gli si addormentava in braccio e intanto diceva forte: Chissà perché uno e zero fa dieci, due uno fa undici, al posto di fare uno e zero undici è due uno dieci! Starsene seduto a sorseggiare il whisky, mentre i pioppi diventano neri…
Finalmente, una volta montata la macchina, il resto della giornata passò più in fretta del previsto. Hutchman portò una poltrona nella cucina e rimase incollato alla stufa, con i piedi dentro il forno. La febbre e l’odore di gas, nell’ambiente senz’aria, gli davano una certa sonnolenza, e lui andava e veniva dal tempo reale. Una volta, dopo mezzanotte, il mal di gola lo fece uscire dallo stato di semi incoscienza in cui si trovava. Calmò il dolore con un po’ di acqua calda, fatta scaldare in una vecchia marmitta trovata in un angolo del cortile. Poi cercò di dormire.
Però non era facile, adesso che mancavano appena dodici ore al momento fatidico. C’era anche il particolare noioso di dover abbandonare la stufa e salire nella stanza della macchina, perché di sopra era meno facile essere colti di sorpresa. Ma se saliva di sopra subito, pensava, avrebbe preso freddo, e c’era il rischio che soccombesse al male. Rannicchiato nella poltrona, avvolto in quei panni sudici, Hutchman cercò di immaginare l’attività frenetica in cui la sua iniziativa aveva buttato gli altri uomini. Si chiedeva cosa stava succedendo in tutti i punti segreti del globo dove erano accatastate le armi nucleari. E, subitaneamente, Hutchman rimase impressionato pensando all’immensa presunzione che aveva dimostrato. Lui non sapeva assolutamente nulla dei particolari pratici della bomba H. E, se nella sua ignoranza abissale, non avesse concesso abbastanza tempo per smantellare le testate nucleari? E anche se aveva ampiamente informato i tecnici che erano al lavoro in circostanze normali, che cosa sarebbe avvenuto in un sottomarino Polaris in navigazione sotto i ghiacci dell’Antartide?
Al mattino si rimise faticosamente in piedi, spaventato da come sibilava il suo respiro, e bevve dell’altra acqua calda. Guardò l’orologio. Mancavano meno di tre ore. Sostenendosi alla parete e poi alla ringhiera della scala, Hutchman salì al piano di sopra e si sedette. Si piegò di lato e girò gli interruttori che mettevano la macchina in condizione di funzionare: poi si assicurò che la sua mano arrivasse facilmente al pulsante nero.
Ero pronto.
Chiuse gli occhi e aspettò e, intanto, sorrideva all’immagine di Vicky che adesso, finalmente, avrebbe capito.
Un rumore metallico nella strada lo riportò in piena coscienza. Rimase seduto, perfettamente immobile, col dito sul pulsante, tendendo l’orecchio. Pochi secondi dopo, sentì un ben noto rumore di tacchi alti sul marciapiede: passi di donna che correvano, seguiti da un colpo battuto alla porta d’ingresso. Hutchman non si mosse, però cominciò a togliere il dito dal pulsante.
«Lucas!» chiamò una voce, piano. «Lucas!»
Era Vicky.
Spinto da un nuovo terrore, Hutchman si precipitò giù per le scale e spalancò la porta. Vicky era lì, in piedi, davanti a lui. La sua faccia, appena lo vide, si afflosciò come cera molle.
«Va’ via» le gridò lui. «Va’ via di qui!» Guardò alle spalle di lei, e vide che due macchine si fermavano all’angolo della via. Uomini in cappotto e abito scuro correvano in direzione della villetta.
«Dio mio, Lucas. Ma cosa ti è successo?» Ogni colore era sparito dalla faccia di lei.
Hutchman la tirò dentro e richiuse la porta. Trascinandosela dietro, corse di sopra, nella camera da letto sul retro, poi crollò su una sedia.
«Perché sei venuta qui?» disse tra un rantolo e l’altro. «Perché sei venuta?»
«Ma tu sei solo!» Vicky parlava con voce appena intelligibile, e i suoi occhi smarriti si guardavano attorno, nella stanza nuda. «E stai male!»
«Sto benissimo» tentò di dire lui.
«Ma ti sei visto?» Vicky si coprì la faccia mettendosi a piangere. «Oh Lucas, ma cosa hai fatto?»
Lui raccolse la vecchia fodera del sofà e se la strinse attorno alle spalle. «Va bene, te lo spiego. Ma tu devi ascoltarmi con attenzione e devi credermi, perché non abbiamo molto tempo.»
Vicky annuì, tenendo la faccia nascosta tra le mani guantate.
«Ho costruito questa macchina.» Parlava con amarezza, abbandonandosi all’autocompassione, ora che anche Vicky stava per arrivare al suo momento della verità. «E quando la metterò in azione, oggi a mezzogiorno, tutte le bombe nucleari del mondo esploderanno. Ecco che cosa facevo quando tu pensavi…» La voce gli mancò, quando Vicky alzò la testa e lui la vide in faccia.
«Sei pazzo» sussurrò lei, smarrita. «Sei diventato pazzo!»
Hutchman scostò dalla fronte i capelli arruffati. «Ma non hai ancora capito? Ma perché credi che mi diano la caccia?»
«Tu stai male» disse con decisione Vicky, con quell’ostinazione che lui conosceva bene. «E hai bisogno di aiuto.»
«No, Vicky, no!»
Lei si girò e corse verso le scale. Hutchman cercò di fermarla, inciampò nello scialle improvvisato e cadde. Arrivò all’imbocco delle scale nel momento preciso in cui Vicky raggiungeva la porta d’ingresso.
La spalancò e finì addosso ai due uomini vestiti di nero. Uno dei due impugnava una grossa pistola. Spinse da parte Vicky, e Hutchman vide il braccio teso senza neanche rendersi conto che la pistola era puntata verso di lui. Lei piantò le unghie nella faccia dell’uomo. Il secondo figuro le fece fare un mezzo giro e la colpì alla nuca, con un colpo di karatè. Anche dall’alto delle scale, Hutchman sentì il rumore delle ossa spezzate. Posò il piede sull’ultimo scalino, nel momento in cui la pistola faceva fuoco. Il braccio gli ricadde, inerte. Gemendo per il dolore corse verso la camera da letto e posò il dito sul pulsante nero.
Col dito sul pulsante, si issò con fatica sulla seggiola di fronte alla porta. E quando i due uomini entrarono, Hutchman sorrideva.
17
Era stata una decisione difficile ma, una volta presa, il presidente cominciava a rilassarsi. Andò al bar, si versò un bicchierino di curaçao e tornò al tavolo. Dietro la triplice vetrata della stanza, la cima di una montagna scintillava come un’agata, serena e sicura al di sopra del tumulto biologico della giungla. Sorseggiò il liquore con aria meditabonda e assaporandone il calore, poi premette un pulsante sul tavolo.
Il generale entrò immediatamente. La divisa che indossava, abitualmente immacolata, adesso era irriconoscibile per le striature simmetriche del sudore. «Ho avuto conferma» disse, senza badare al protocollo. «Ogni particolare del primo rapporto era vero al cento per cento.»