«Cosa posso fare per te, Hutch?»
«Ah, ecco, sto facendo un esperimento sulla radiazione a micro-onde e vorrei fare da solo il lavoro di preparazione. Potresti concedermi un locale, per un mese o due?»
«Non lo so se sarà possibile. Con il programma Jack-and-Jill scaraventano tutto sulle nostre spalle. È importante?»
«Molto importante.» Hutchman tracciò sul piano lucido del tavolo due grosse M, come morte, morte a Damasco.
«Perché non vai da Mackenson?»
«È un lavoro semi privato. È probabile che, alla fine, sia vantaggioso per la Westfield ma, per ora, voglio tenere la cosa per me, nell’eventualità che tutto finisca in una bolla di sapone. Per questo non vorrei andare da lui.»
«Allora non posso proprio esserti di aiuto. Un attimo, cosa ti serve esattamente?» Taylor diventava curioso, evidentemente perché si era accorto che Hutchman nascondeva qualcosa.
«Molto poco. Un banco da lavoro in un locale che io possa chiudere. Non è neanche il caso di stabilizzare le prese di energia.»
«Un momento, Hutch. Un attimo fa hai parlato di micro-onde. Fino a che punto sono micro?»
«Molto micro.» Hutchman si accorse che la conversazione gli stava sfuggendo dalle mani. Il primo a cui aveva accennato il progetto più segreto del mondo, cominciava già a insospettirsi e a fare domande molto precise. «Forse 6 / 1018 Hertz.»
«Santo Dio, ma questo taglia la testa al toro. Le norme di sicurezza non consentono di maneggiare radiazioni di quel tipo, a meno che ci siano installazioni di sicurezza particolari. Spiacente, Hutch.»
«Non importa.» Mise giù il telefono e sedette, guardando la parete di vetro e la macchia grigia che rivelava che Don Spain era arrivato in ufficio prima del solito. Il progetto seguiva le sue previsioni, esattamente lo stesso cammino dei suoi incontri precedenti con la realtà fisica, ai livelli più bassi. Per esempio l’aggiustatura di un guasto alla macchina, che occupava al massimo dieci minuti e in cui, dopo un’ora di lavoro, stava ancora cercando di svitare il primo bullone. C’è gente che ha la capacità benedetta di saper dominare i materiali e le circostanze, mentre altri, come Hutchman, devono accontentarsi di costruire splendidi edifici teorici, senza essere capaci di tradurli in realtà. Hutchman, quando il citofono interno chiamò, si sentiva furioso quanto impotente. Alzò il microfono prima che Muriel prendesse la comunicazione.
«Senti, Hutch» era di nuovo Taylor. «Ho ripensato al tuo problema. Sapevi che la Westfield ha l’uso di un laboratorio dell’Istituto Jeavons, a Camburn?»
«Ne ho sentito parlare, vagamente.» Adesso il cuore gli batteva calmo, regolare.
«È una convenzione non ufficiale, che abbiamo stipulato all’incirca quando sono riusciti a convincere il vecchio Westfield a fornirsi del loro complesso criogenico. Il risultato è che possiamo usare il laboratorio quando non ne hanno bisogno loro per i lanci spaziali.»
«E adesso com’è la situazione?»
«Credo che stiano segnando il passo, per lo meno sarà così fin dopo Natale. Se vuoi, telefono al professor Duering e vedo se posso farti mettere a disposizione il laboratorio.»
«Ti sono davvero grato, Cliff.» Hutchman, semi strozzato dalla gratitudine, faticava ad articolare le parole e a usare un tono di voce normale. Dopo la telefonata provò un momento inebriante di certezza assoluta. Uscì dall’ufficio e corse su per le scale, fino alla sezione acquisti, dove passò più di due ore a scrivere appunti dal catalogo e a controllare la disponibilità degli articoli più importanti. Nel pomeriggio Taylor gli confermò che il laboratorio dell’Istituto Jeavons era a sua disposizione: andò subito a dargli un’occhiata e a ritirare le chiavi da Duering. Alle cinque, ora in cui di solito lasciava l’ufficio, non aveva ancora fatto mezz’ora di lavoro per la Westfield, ma era pronto a disegnare i piani particolareggiati della macchina anti-bomba. Disse a Muriel di ordinargli del tè quando andava via e, mentre il palazzo piombava nel silenzio del week-end, si preparò a tracciare i primi disegni.
Un’ora dopo, quand’era al massimo della concentrazione, avvertì come un disagio improvviso, la sensazione che qualcosa non andasse. La sua mente, sprofondata in una giungla di linee e di simboli, non si lasciò distrarre facilmente, ma una parte di lui entrò in allarme e lo costrinse ad allargare la sua rete di percezioni. C’è qualcosa che non va. Quell’oggetto grigio, appoggiato contro la parete di vetro, mi sembra una faccia. È questo che mi innervosisce. Hutchman, alzato il rullo, stava sistemando il cursore quando i suoi occhi si fissarono sulla forma grigia. I lineamenti, incerti, risposero al suo sguardo, imperturbabili.
Ma è una faccia!
Sussultò, convulso, notando che, dall’altra parte del vetro, qualcuno lo osservava e solo in un secondo momento pensò che, evidentemente, era Don Spain. Il ragioniere doveva aver lavorato fino a tardi, però il silenzio innaturale che aveva fatto sì che Hutchman, per un’ora intera, non si accorgesse della sua presenza, era senz’altro intenzionale. Ancora furente Hutchman mise i fogli di carta millimetrata in una cartellina. Poi la nascose. La faccia di Spain dietro il vetro non si mosse. Hutchman prese da un cassetto un temperamatite e lo lanciò, con forza, sulla faccia spettrale. L’oggetto colpì il vetro con un colpo secco che per poco non lo mandò in pezzi.
Spain sparì all’istante. Dopo qualche secondo aprì la porta di comunicazione e entrò.
«Ma cosa ti è saltato in mente, Hutch? Per poco non mandavi in pezzi il cristallo sulla mia faccia.»
«E tu, perché stavi là fuori a osservarmi?»
«Non sapevo che tu fossi in ufficio. Ho lavorato fino a tardi, mi è sembrato di sentire del rumore da te e sono venuto a guardare.»
«Grazie» disse Hutchman, senza nascondere il disgusto che l’altro gli ispirava. «E non ti è venuto in mente di provare ad aprire la porta?»
«Ma non volevo piombarti addosso all’improvviso. Dopo tutto…» Spain ridacchiò, gorgogliando «…poteva esserci una donna, con te.»
«È la prima idea che ti è venuta in mente, eh?»
Spain alzò le spalle, continuando a sogghignare. «Non sei il tipo che lavora fino a tardi, Hutch, e per tutto il giorno ti sei comportato in modo strano. Sono tutti sintomi della sindrome di Batterbee. Te lo ricordi Batterbee?»
Hutchman annuì, mentre riaffiorava con violenza la paura che gli ispirava Spain. Batterbee era un ingegnere progettista, molto stimato nell’ambiente della Westfield, che aveva perso l’impiego perché scoperto in «flagrante delicto» con la segretaria, sul tappeto dell’ufficio, quando tutti credevano che facesse gli straordinari. Spain raccontava sempre quell’aneddoto.
«Mi spiace darti una delusione» disse Hutchman. Prese una matita e si mise a scrivere una serie di cifre sul taccuino, ma Spain si fermò per un quarto d’ora a discutere dell’ufficio. Nel frattempo la capacità di concentrazione di Hutchman era stata messa a dura prova, e lui cominciava ad essere stanco. Cercò di finire lo schema prima di andare a letto, in modo da potersi concentrare il giorno dopo sul problema dell’acquisto delle parti metalliche. Erano le nove passate quando, finalmente, raccolse tutte le carte e uscì nell’oscurità della sera. L’aria di ottobre era piena del profumo delle foglie di castagno e nel cielo occidentale splendeva bassa una stella, grossa come una lampada da carro. Lucas respirò profondamente, raggiungendo la macchina. Inspirare per quattro passi, tenere il fiato per altri quattro, espirare dopo altri quattro passi! Uscendo fece un cenno di saluto al sorvegliante di servizio nella guardiola dell’ingresso principale. Era una bella serata, se uno riusciva a non pensare all’astro fabbricato dall’uomo, che sbocciava in un breve istante sulle città indifese.