— Oh, sì, scusami. Capisco di averti scaricato addosso tante notizie in una volta sola. Sì, ho detto che ero appena andato al motel a cercare Brad. Vedi, sembra che i sistemi percettivi non abbiano funzionato bene e abbiano ucciso Willy. Ecco, è un problema che riguarda Brad. E proprio oggi doveva decidere di star fuori tanto per pranzo… Beh, non c’è bisogno che te lo dica io, com’è Brad. Probabilmente è da qualche parte, a letto con una delle infermiere. Ma le cose si metteranno male se non si presenterà per la riunione… — S’interruppe per dare un’occhiata all’orologio. — Caspita, bisogna che rientri anch’io. Ma la notizia volevo dartela personalmente.
— Grazie, tesoro, — disse Dorrie in tono distratto, come se inseguisse un pensiero. — Non sarebbe stato meglio telefonargli?
— A chi?
— A Brad, naturalmente.
— Oh. Oh, sicuro, ma era una faccenda riservata. Non volevo che nessuno potesse ascoltare. E poi, non credo che avrebbe risposto al telefono. Anzi, l’impiegato non ha voluto ammettere neppure che Brad fosse lì. E ho dovuto rivolgermi al servizio sicurezza per scoprire dove poteva essere. — Ebbe un pensiero improvviso: sapeva che Dorrie giudicava simpatico Brad, e si chiese per mezzo secondo se era scandalizzata della sua immoralità. Poi quel pensiero tramontò, ed egli proruppe, in tono d’ammirazione: — Tesoro, devo dire che l’hai presa meravigliosamente. Molte donne al tuo posto sarebbero già in preda a crisi isteriche.
Dorrie scrollò le spalle e disse: — Bene, a che servirebbe? Lo sapevamo tutti e due che poteva accadere anche questo.
Roger si azzardò a dire: — Non avrò un gran bell’aspetto, Dorrie. E vedi, credo che dal punto di vista fisico il nostro matrimonio per un po’ volerà dalla finestra… anche senza contare il fatto che resterò via in missione per oltre un anno e mezzo.
Lei assunse un’espressione pensosa, poi rassegnata; infine lo guardò in faccia e sorrise. Si alzò, gli andò vicino e lo abbracciò. — Sarò fiera di te, — disse. — E avremo tanto, tanto tempo da vivere insieme, quando sarai tornato. — Si scostò quando egli fece per baciarla e disse, scherzosamente: — Niente da fare, devi tornare al laboratorio. Cosa intendi fare con Brad?
— Beh, potrei tornare al motel…
Dorrie disse, decisa: — Non andare, Roger. Lascia che si arrangi. Se sta combinando qualcosa che non dovrebbe, è affar suo. Voglio che tu vada alla riunione e… Oh, ecco, giusto! Sto per uscire di nuovo. Passerò vicino al motel. Se vedo la macchina di Brad gli lascerò un biglietto.
— Già. A me non era neppure venuto in mente, — esclamò Roger, pieno d’ammirazione.
— Quindi non ti preoccupare. Non voglio che tu pensi a Brad. Con tutto ciò che sta per succedere, dobbiamo pensare a noi due!
Jonathan Freeling, dottore in medicina, membro del collegio americano di chirurgia, membro dell’Associazione Americana di Medicina Spaziale.
Jonny Freeling si occupava di medicina aerospaziale ormai da tanto tempo che aveva perduto l’abitudine di aver a che fare con i cadaveri. E soprattutto, non era abituato a fare l’autopsia ai cadaveri dei suoi amici. Del resto, di solito quando gli astronauti morivano, del loro corpo non restava niente. Se morivano nell’adempimento del loro dovere era molto improbabile che vi fossero autopsie; quelli che si perdevano nello spazio ci restavano, quelli che morivano più vicino alla Terra di solito si trasformavano in gas tra fiamme d’idrogeno e di ossigeno. In ogni caso, non restava nulla da mettere su un tavolo anatomico.
Era difficile rendersi conto che l’oggetto che stava sezionando era Willy Hartnett. Non era tanto un’autopsia quanto, per così dire, lo smontaggio di una carabina. Freeling aveva contribuito a mettere insieme quei pezzi… là gli elettrodi di platino, quei chips miniaturizzati nella scatola nera, lì; e adesso era venuto il momento di smontarli di nuovo. Però c’era sangue. Nonostante tutto, quando Willy era morto aveva ancora tanto, tanto sangue.
— Congelare e sezionare, — disse, consegnando un grumo di sostanza, su di una lastra di vetro, all’infermiera che lo prese con un cenno del capo. Era Clara Bly. Il suo grazioso visetto nero esprimeva tristezza, anche se era difficile capire, rifletté Freeling mentre estraeva uno sgocciolante filamento metallico che faceva parte dei circuiti visivi, se la tristezza era causata dalla morte del cyborg o dall’idea di dover rinunciare alla festa che Clara aveva in programma. Clara Bly se ne andava: si doveva sposare l’indomani. La sala rianimazione, proprio dietro quella porta, era ancora festonata di nastri e di fiori di carta crespata per la festa. Avevano chiesto a Freeling se dovevano sgombrarla per l’autopsia, ma ovviamente non era necessario: nessuno doveva venire rianimato in sala rianimazione.
Freeling alzò gli occhi verso l’assistente chirurgo, ritta nel posto che in una normale operazione sarebbe stato occupato dall’anestesista, e latrò: — Si sa ancora niente di Brad?
— È arrivato, — rispose quella.
E allora perché diavolo non viene qui? pensò Freeling, ma non disse nulla e si limitò ad annuire. Se non altro, era tornato. Qualunque guaio fosse scoppiato per quella faccenda, Freeling non avrebbe dovuto sopportarlo da solo.
Ma più frugava e sondava, e più si sentiva sconcertato. Dov’era il guaio? Che cosa aveva ucciso Hartnett? I componenti elettronici sembravano in perfetto ordine. Ogni volta che ne asportava uno, veniva portato immediatamente agli specialisti della strumentazione, che lo sottoponevano alle prove di banco. Nessun problema. E neppure la struttura fisica generale del cervello offriva una spiegazione immediata…
Era possibile che il cyborg fosse morto senza una causa?
Freeling si rialzò, accorgendosi di sudare sotto le luci caldissime: aspettava istintivamente che l’infermiera gli tergesse il sudore. L’infermiera non c’era: lo ricordò, e si asciugò la fronte con la manica. Poi riprese, separando e asportando delicatamente il sistema nervoso ottico… cioè quanto ne rimaneva: le sezioni principali erano sparite insieme agli occhi, ed erano state sostituite da parti elettroniche.
E poi vide.
Dapprima il sangue che filtrava sotto il corpus callosum. Poi, mentre sondava delicatamente, la guaina biancogrigia e viscida di un’arteria, con un gonfiore che era scoppiato. Un episodio cardiovascolare. Un colpo.
Freeling smise di lavorare. Il resto poteva venire sbrigato più tardi, o non venire sbrigato affatto. Forse sarebbe stato bene lasciare quanto rimaneva di Willy Hartnett nelle condizioni in cui si trovava. Ed era l’ora della riunione.
La sala delle conferenze serviva anche come biblioteca dell’infermeria, il che significava che quando c’era in corso una riunione, le ricerche sui testi venivano interrotte. Intorno al lungo tavolo c’erano sedie imbottite per quattordici persone: erano tutte occupate, e c’erano anche molti altri, sistemati alla meglio su sedie pieghevoli. Due posti erano vuoti: quelli di Brad e di Jon Freeling, assenti per un’ultima corsa in laboratorio per controllare i risultati di certi esami al microscopio, dicevano: in realtà Freeling teneva a informare il suo capo di quanto era accaduto mentre lui era «fuori a pranzo». Gli altri c’erano tutti. Don Kayman e Vic Samuelson (promosso al ruolo di riserva di Roger, e in apparenza tutt’altro che entusiasta dell’idea), Telly Ramez, lo psichiatra capo, tutti gli specialisti di fisiologia cardiovascolare intenti a borbottare tra di loro, gli alti papaveri dei settori amministrativi… e i due divi. Uno dei divi era Roger Torraway, seduto impacciato a capotavola, ad ascoltare con un sorriso raggelato le conversazioni altrui. L’altro divo era Jed Griffin, l’uomo di fiducia del presidente. Il suo titolo era solo capo assistente amministrativo del presidente, ma persino il vicedirettore lo trattava come se fosse il papa. — Possiamo incominciare quando crede, Mr. Griffin, — lo esortò il vicedirettore. La faccia di Griffin si contrasse in un sorriso: ma egli scosse il capo.