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Roger seguiva la conversazione con grande interesse, ma non ne capiva molto. — Ehi, un momento, — disse. — Io sono più complicato… Cioè, un uomo è molto più complicato di una rana. Come fai a stabilire ciò che io «devo» vedere?

— Gli elementi della sopravvivenza, Rog. Abbiamo ricavato moltissimi dati da Willy, e credo che ci riusciremo.

— Grazie. Vorrei però che ne fossi un po’ più sicuro.

— Oh, sono abbastanza sicuro, — disse Brad, con un gran sorriso. — Questa situazione non mi ha colto del tutto alla sprovvista.

Con la gola stretta e un filo di voce, Torraway chiese: — Vorresti dire che hai lasciato che Willy continuasse così e…

— No, Roger! Suvvia. Willy era anche amico mio. Pensavo che vi fosse un fattore di sicurezza sufficiente per tenerlo in vita. Mi ero sbagliato, e ne soffro almeno quanto te, Roger. Ma lo sapevamo tutti: c’era il rischio che i sistemi non funzionassero a dovere, e che avremmo dovuto fare dell’altro.

— Questo, — disse Griffin, in tono pesante, — non risultava in modo molto chiaro dai rapporti periodici. — Il vicedirettore fece per parlare, ma Griffin scosse il capo: — Ne riparleremo un’altra volta. Cosa mi stava dicendo adesso, Bradley? Ha intenzione di escludere parte delle informazioni?

— No, non escluderle. Mediarle. Tradurle in una forma che Roger possa assimilare.

— Ma Torraway ha fatto osservare che un uomo è più complicato di una rana. Lei ha mai fatto una cosa del genere con esseri umani?

Sorprendentemente, Brad sorrise soddisfatto: era pronto a rispondere. — Per la verità, sì. Circa sei anni fa, prima che io venissi qui… ero ancora uno studente laureato. Prendemmo quattro volontari e li condizionammo con il sistema di Pavlov. Facevamo lampeggiare una luce intensa davanti ai loro occhi, e contemporaneamente, facevamo suonare un campanello elettrico con trenta vibrazioni al secondo. Ebbene, naturalmente, quando ci proiettano una luce forte negli occhi, le nostre pupille si restringono. Non è l’effetto di un controllo conscio: è impossibile simulare un riflesso del genere. È una reazione alla luce, null’altro: solo una capacità evolutiva di proteggere l’occhio dalla luce solare diretta.

«Questo tipo di reazione, determinato dal sistema nervoso autonomo, è difficile da condizionare negli esseri umani. Però noi ci riuscimmo. E quando il riflesso si afferma, si radica saldamente. Dopo… mi pare dopo trecento prove per soggetto, il riflesso si fissò. Bastava far suonare il campanello, e le pupille dei soggetti si contraevano fino a diventare puntiformi. Riesce a seguirmi, fin qui?»

— Ricordo abbastanza bene i riflessi condizionati di Pavlov: li ho studiati all’università. Roba normale, — disse Griffin.

— Beh, la parte successiva non era tanto normale. Stabilimmo un collegamento con il nervo auditivo, e potemmo misurare il segnale che perveniva al cervello: din-din, trenta vibrazioni al secondo, potemmo leggerlo sull’oscilloscopio. ;

«Poi cambiammo il campanello. Ne usammo uno che dava ventiquattro vibrazioni al secondo. Vuol sapere che cosa accadde? — Griffin non rispose, e Brad sorrise: — L’oscilloscopio continuò a mostrare trenta vibrazioni al secondo. Il cervello udiva qualcosa che in realtà non esisteva.

«Quindi, vede, non sono soltanto le rane che ricorrono a questo tipo di mediazione. Gli esseri umani percepiscono il mondo in modi predigeriti. Gli input sensoriali stessi correggono e riordinano le informazioni.

«Dunque, quel che ci proponiamo di fare con te, Roger, — continuò giovialmente Brad, — è darti un piccolo aiuto nell’interpretazione. Non possiamo fare molto, con il tuo cervello: efficiente o no, è quello che è e basta. È una massa di materia grigia, con una struttura che ne limita le capacità, e non possiamo continuare a inondarla di informazioni sensoriali. L’unico posto in cui possiamo lavorare è al punto di contatto… prima che l’informazione arrivi al cervello.»

Griffin batté sul piano del tavolo il palmo della mano aperta. — Possiamo farcela per la data della finestra di lancio? — ringhiò.

— Io posso solo tentare, signore, — rispose giovialmente Brad.

— Lei può soltanto andarsi a impiccare se accettiamo questa sua idea e non funziona, ragazzo mio!

L’espressione gioviale sparì dalla faccia di Brad. — Cosa vuole che le dica?

—  Voglio che lei mi indichi le probabilità! — latrò Griffin.

Brad esitò. — Non sono peggiori di cinquanta per cento — disse finalmente.

— Allora, — rispose Griffin, sorridendo finalmente, — ci sto.

Cinquanta per cento, pensò Roger mentre tornava verso il suo ufficio: come probabilità non erano male. Naturalmente, tutto dipendeva dalla posta in gioco.

Rallentò per lasciare che Brad lo raggiungesse. — Brad, — gli chiese, — sei proprio sicuro di quel che hai detto?

Brad gli diede una pacca sulle spalle, amichevolmente. — Più sicuro di quanto ho ammesso, per essere sincero. Ma non volevo espormi troppo con il vecchio Griffin. E poi, senti una cosa, Roger: grazie.

— Di che?

— Di aver cercato di avvertirmi, oggi. Te ne sono grato.

— Prego, — disse Roger. Si soffermò ancora per un momento, seguendo con gli occhi Brad che si allontanava, e chiedendosi come faceva quello a sapere una cosa che lui aveva detto soltanto a sua moglie.

Avremmo potuto dirglielo noi… e in verità avremmo potuto dirgli molte, moltissime cose, persino perché i sondaggi indicavano quel che indicavano. Ma in realtà non c’era bisogno che glielo dicesse nessuno. Avrebbe potuto dirselo lui stesso… se si fosse permesso di saperlo.

CAPITOLO SETTIMO

IL MORTALE DIVENTA MOSTRO

Don Kayman era un uomo complesso, che non abbandonava mai un problema senza averlo prima risolto. Era per questo che ci tenevamo ad averlo nel progetto come areologo: ma riguardava anche gli aspetti religiosi della sua vita. C’era in fondo alla sua mente un problema religioso che lo turbava.

La cosa non gli impediva di fischiettare tra sé mentre si radeva meticolosamente il volto intorno alla barba alla Dizzy Gillespie e si spazzolava con cura i capelli alla paggio, guardandosi allo specchio. Tuttavia lo turbava veramente. Fissò attento la propria immagine, cercando di individuare ciò che lo rendeva inquieto. Dopo un attimo si rese conto che una delle cause, almeno, era la sua maglietta. Non andava bene. Se la sfilò e mise invece un maglioncino a quattro colori, con il collo alto, che aveva abbastanza l’aria del colletto da ecclesiastico per colpire il suo senso dell’humor.

Il citofono suonò. — Donnie? Sei quasi pronto?

— Arrivo fra un minuto, — disse Don Kayman, guardandosi intorno. Che altro? La giacca sportiva era appesa a una sedia accanto alla porta. Le scarpe erano ben lucide. I calzoni erano abbottonati. — Divento sempre più distratto, — si disse. Ciò che lo turbava era qualcosa che riguardava Roger Torraway, che in quel momento gli faceva una gran pena.

Scrollò il capo, prese la giacca, se la buttò sulla spalla, percorse il corridoio e andò a bussare alla porta del monastero di suor Clotilda.

— Buongiorno, padre, — disse la novizia che lo fece entrare. — Si accomodi. Vado a chiamarla.

— Grazie, Jess. — Mentre la novizia si allontanava, Kayman la guardò con aria da intenditore. L’abitudine di portare calzamaglie aderenti metteva in risalto la sua figura, e Kayman si godette la vaga, antica sensazione di peccato che gli dava. Era un vizio gradevole, come mangiare roast beef di venerdì. Ricordava i suoi genitori che ogni venerdì sera masticavano ostinatamente frutti di mare congelati, sebbene la dispensa fosse diventata generale. Non ritenevano che fosse un peccato mangiare carne, questo no: ma il loro apparato digestivo si era così abituato al pesce, il venerdì, che non sapevano cambiare. I sentimenti di Kayman nei confronti del sesso erano qualcosa di molto simile. Quando l’obbligo del celibato era stato soppresso, non era bastato a eliminare il condizionamento ancestrale di duemila anni d’un sacerdozio che aveva finto di non sapere a cosa servisse l’apparato genitale.