Ma Roger e gli altri cinque americani erano da quelle parti, a bordo di un’astronave progettata per compiti di rimorchio, e avevano tanto carburante da bastare per un’altra mezza dozzina di missioni. Non era troppo, ma riuscirono a farlo bastare: abbinarono rotta e velocità a quelle dell’Avrora Dva, si collegarono e tirarono fuori i cosmonauti. Che spettacolo di grandi abbracci e di baci ispidi in condizioni d’imponderabilità! Tornati nel rimorchiatore spaziale, con quello che i russi avevano portato con sé, combinarono una festicciola: succo di ribes, e paté offerti in cambio di cheeseburgers. E dopo altre due orbite, l’Avrora precipitò verso la Terra come una meteora. «Come una fulgida esalazione nella sera,» disse Yuli Bronin, il cosmonauta che era stato a Oxford, e baciò di nuovo i suoi salvatori.
Quando ritornarono sulla Terra, agganciati a due a due con le cinture di sicurezza sulle amache, più vicini di coppie d’innamorati, erano tutti eroi, ed erano tutti adorati, persino Roger, persino da Dorrie.
Ma questo apparteneva al passato.
In seguito, Roger Torraway aveva partecipato a due voli circumlunari, e si era occupato di pilotare l’astronave mentre gli equipaggi addetti al radiotelescopio svolgevano collaudi orbitali sul grande, nuovo specchio radio sull’altra faccia del satellite. E infine aveva preso parte al fallito atterraggio su Marte; e anche quella volta avevano avuto fortuna ed erano ritornati sulla Terra tutti d’un pezzo. Ma poi il fascino s’era dileguato di nuovo. Si era trattato solo di jella e di avarie meccaniche, nient’altro.
Quindi, da allora, l’attività di Roger era stata soprattutto… diplomatica. Giocava a golf con i senatori membri della Commissione Spazio e si recava regolarmente alle installazioni eurospaziali di Zurigo, Monaco e Trieste. Le sue memorie si erano vendute, ma non in modo eccezionale. Fungeva da riserva per eventuali missioni. Mentre il programma spaziale tramontava rapidamente, e smetteva di essere una priorità nazionale per ridursi ad una serie di esercitazioni, Torraway aveva da fare cose sempre meno importanti.
Comunque, adesso era riserva per una missione, anche se non ne parlava quando si dava da fare per ottenere appoggi politici alla NASA. Non era autorizzato a parlarne. La nuova missione, che prometteva di venir effettivamente approvata, presto o tardi, era la prima del programma spaziale che fosse stata classificata Top Secret.
Ci aspettavamo molto da Roger Torraway, sebbene non fosse molto diverso dagli altri astronauti: un po’ troppo addestrati, un po’ sottoccupati, molto insoddisfatti della loro attività, ma ancor più decisi a non rinunciarvi, finché c’era ancora una possibilità di ridiventare famosi. Erano tutti così, compreso quello che era un mostro.
CAPITOLO SECONDO
CIÒ CHE VOLEVA IL PRESIDENTE
Torraway pensava spesso all’uomo che era un mostro. Provava per lui un interesse particolare.
Era seduto al posto di secondo pilota, a ventiquattromila metri sopra il Kansas e guardava un blip che usciva placido dallo schermo radar IDF. — Merda, — disse il pilota. Il blip era un Concordski III sovietico; il loro CB-5 aveva continuato a gareggiare in velocità con l’apparecchio russo fin da quando lo avevano inquadrato, sopra il lago artificiale di Garrison.
Torraway sorrise ironicamente e spostò la cloche per aumentare un poco la velocità. Con quell’aumento della velocità relativa, il blip che rappresentava il Concordski accelerò. — Stiamo per perderlo, — disse torvo il pilota. — Dove crede che sia diretto? Magari in Venezuela?
— Speriamolo, — disse Torraway, — tenuto conto del carburante che state consumando tutti e due.
— Già, sicuro, — disse il pilota, per nulla imbarazzato dal fatto di aver superato di parecchio il limite di 1,5 Mach, fissato dal trattato internazionale. — Che cosa succede a Tulsa? Di solito ci lasciano atterrare subito, con un V.I.P. come lei.
— Probabilmente in questo momento sta atterrando un V.I.P. più importante di me, — disse Roger. Non tirava a indovinare, perché sapeva chi era quel V.I.P.: e non ne esistono di più importanti del presidente degli Stati Uniti.
— Guida molto bene questo apparecchio, — dichiarò generosamente il pilota. — Vuol farlo atterrare lei. quando ce lo permetteranno, voglio dire?
— Grazie, no. Sarà bene che io vada dietro a tirar fuori le mie cianfrusaglie. — Ma restò al suo posto, a guardare giù. Avevano iniziato la discesa, e sotto di loro c’era la distesa irregolare dei cumuli L-1: potevano sentire i sobbalzi causati dalle correnti d’aria ascensionale, sopra lo strato di nubi. Torraway tolse le mani dai comandi, e lasciò che li prendesse il pilota. Presto sarebbero passati sopra Tonka, un po’ sulla destra. Si chiese come stava il mostro.
Il pilota si sentiva ancora generoso. — Non vola più tanto, vero?
— Solo quando me lo permette qualcuno come lei.
— Non occorrono sviolinate. Ma che cosa fa, se posso chiederlo? Voglio dire, oltre a fare il V.I.P.
Torraway aveva già una risposta pronta. — Attività amministrative, — disse. Rispondeva sempre così, quando qualcuno gli chiedeva cosa faceva. Qualche volta coloro che gli rivolgevano la domanda avevano le dovute autorizzazioni, non soltanto da parte del governo ma anche dal radar personale che lui aveva nella mente e che gli diceva di fidarsi di una persona piuttosto che di un’altra. Poi aggiunse: — Fabbrico mostri. — Se ciò che gli altri gli rispondevano, allora, indicava che erano al corrente anche loro, poteva spingersi più avanti di una frase o due.
Il Progetto Esomedicina non era un segreto. Tutti sapevano che a Tonka preparavano gli astronauti a vivere su Marte. Era segreto il modo in cui lo facevano: il mostro. Se Torraway avesse detto una parola di troppo avrebbe messo in pericolo la sua libertà e il suo lavoro. E a Roger il suo lavoro piaceva. Serviva a mantenere la sua bella moglie con il laboratorio di ceramica. Gli dava la sensazione di far qualcosa che la gente avrebbe ricordato, e lo portava in posti interessanti. Ai tempi in cui era un astronauta in servizio effettivo era stato in posti ancora più interessanti, ma si trovavano nello spazio ed erano piuttosto desolati. Preferiva i luoghi dove arrivava con i jet privati, e dove trovava ad accoglierlo diplomatici complimentosi e signore impressionabili della buona società. Naturalmente, c’era il mostro cui pensare, ma in realtà Torraway non se ne preoccupava. Non se ne preoccupava molto.
Sorvolarono il fiume Cimarron, o meglio, l’irregolare canalone rossiccio che sarebbe tornato ad essere un fiume alle prime piogge; regolarono i reattori per scendere, ridussero la velocità e atterrarono dolcemente.
— Grazie, — disse Roger al pilota, e andò a prendere la sua roba dalla cabina riservata ai V.I.P.
Questa volta il suo giro l’aveva portato a Beirut, Roma, Siviglia e Saskatoon, prima di ricondurlo in Oklahoma: e ognuno di quei posti era più caldo ed afoso dell’altro. Poiché erano attesi per il briefing ufficiale da parte del presidente, Dorrie lo aspettava al motel dell’aeroporto. Roger si cambiò in fretta, indossando l’abito che gli aveva portato la moglie. Era felice di essere a casa, lieto di poter riprendere a fabbricare mostri e di essere di nuovo con sua moglie. Quando stava per uscire dalla doccia ebbe un rapido e potente impulso erotico. Aveva nella testa un orologio che scandiva il tempo a disposizione, perciò non doveva consultare l’orologio da polso: c’era tempo. Non avrebbe avuto importanza, se fossero arrivati con qualche minuto di ritardo. Ma Dorrie non era più sulla poltrona dove l’aveva lasciata; il televisore era acceso, la sigaretta si consumava sul portacenere, ma lei era sparita. Roger sedette sull’orlo del letto, avvolto nell’asciugamani, fino a che il suo orologio mentale gli disse che ormai non c’era più tempo sufficiente. Allora cominciò a vestirsi. Si stava facendo il nodo alla cravatta quando Dorrie bussò alla porta. — Scusami, — disse quando lui andò ad aprirle. — Non riuscivo a trovare il distributore della Coca. Una per te e una per me.