Выбрать главу

Dorrie guardò con aria implorante il prete e la suora, che tacevano un po’ a disagio. — E poi, — continuò, — mi arrivate qui voi e mi dite che dovrei andare a vederlo mentre lo stanno trasformando in qualcosa di orrido, di ridicolo. Voi e tutti gli altri. Ieri sera è venuta Kathleen Doughty. Non la finiva più: aveva bevuto e rimuginato, e aveva deciso di venirmi a dire, dall’alto della sua saggezza ispirata dal bourbon, che io rendevo infelice Roger. Beh, ha ragione lei. Avete ragione tutti quanti. Lo rendo infelice. Ma vi sbagliate se pensate che andando a trovarlo lo renderei felice… Oh, diavolo.

Il telefono squillò. Dorrie alzò il ricevitore, poi diede un’occhiata a Kayman e a suor Clotilda. L’espressione quasi supplichevole diventò impenetrabile come quella delle statuine di porcellana sul tavolo accanto. — Scusatemi, — disse, rialzando i morbidi petali di plastica intorno al microfono, che assicuravano l’insonirizzazione, e girandosi sulla poltroncina in modo da volgere le spalle ai visitatori. Per un momento parlò, senza farsi sentire, poi depose il ricevitore e tornò a girarsi verso i due.

Kayman disse: — Sì, forse non hai tutti i torti, Dorrie. Tuttavia…

Dorrie sorrise: un sorriso di porcellana. — Tuttavia vorresti insegnarmi a vivere. Beh, non puoi farlo. Avete detto entrambi quel che volevate dire. Vi sono grata per la visita. Vi sarò ancora più grata se ve ne andrete. Non c’è altro da aggiungere.

All’interno del gran cubo bianco del palazzo del progetto, Roger giaceva disteso su un letto fluidizzato. Era così da tredici giorni: quasi sempre privo di sensi, o incapace di rendersi conto se era conscio o no. Sognava. Capiva quando sognava: dapprima grazie ai movimenti rapidi degli occhi, e più tardi dai fremiti delle terminazioni muscolari, dopo che gli occhi erano asportati. Alcuni dei suoi sogni erano realtà, ma non era in grado di distinguerli.

Noi sorvegliavamo continuamente Roger Torraway, secondo per secondo. Non c’era flessione di muscolo o lampo di sinapsi che non mettesse in moto qualche monitor, e noi integravamo diligentemente i dati e mantenevamo una sorveglianza continua sulle sue funzioni vitali.

Era solo l’inizio, quello. Ciò che era stato fatto a Roger nei primi tredici giorni di interventi chirurgici non era molto di più di quanto era stato fatto a Willy Hartnett. E non era abbastanza.

Quando fu tutto compiuto, le équipes di protesiologi e di chirurghi cominciarono a fare cose che non erano mai state fatte a nessun altro essere umano. L’intero sistema nervoso di Torraway venne revisionato, e tutti i canali principali furono collegati a strumenti che portavano al grande computer, nel sotterraneo. Era un IBM 3070 tuttofare. Occupava la metà di una sala e non bastava ancora per svolgere tutti i compiti necessari. Era soltanto un collegamento temporaneo. A duemila miglia di distanza, nello Stato di New York, lo stabilimento dell’IBM stava realizzando un computer specializzato, così piccolo da stare in uno zaino. La progettazione era stata la parte più difficile del progetto: continuammo a revisionare i circuiti persino quando venivano montati sui banchi. Lo zaino non poteva superare i trentasei chili, peso terrestre. Le dimensioni massime non potevano superare i cinquanta centimetri. E doveva funzionare grazie a batterie a corrente continua che venivano caricate in continuazione per mezzo di pannelli solari.

I pannelli solari, all’inizio, avevano costituito un problema: ma lo risolvemmo in modo piuttosto elegante. Richiedevano un’area superficiale minima di tre metri quadrati. L’area superficiale del corpo di Roger, anche dopo essere stata modificata da varie aggiunte, non sarebbe bastata neppure se avesse potuto accettare subito la luce solare piuttosto debole di Marte. Risolvemmo il problema progettando due grandi ali lievi, fatate. — Roger sembrerà Oberon, — disse allegramente Brad, quando vide i disegni. — O un pipistrello, — borbottò Kathleen Doughty.

In effetti, sembravano ali di pipistrello, perché erano nere come il giaietto. Non sarebbero servite per volare, neppure in un’atmosfera abbastanza densa, se Marte l’avesse avuta. Erano fatte di una pellicola sottile, e avevano scarsa forza strutturale. Ma non erano destinate a volare, né a portare pesi. Dovevano soltanto schiudersi automaticamente, orientandosi per ricevere tutte le radiazioni del sole. In un secondo tempo, il modello fu cambiato, in modo che Roger potesse controllare le ali e usarle come un funambolo usa il bastone, per tenersi in equilibrio. Nel complesso, rappresentavano un immenso miglioramento rispetto alle «orecchie» che avevamo messo a Willy Hartnett.

Le ali solari furono progettate e realizzate in otto giorni: quando le spalle di Roger furono pronte a riceverle, le ali erano pronte per venir fissate. La pelle, ormai, era ordinaria amministrazione. Ne avevano usata già tanta con Willy Hartnett, sia come dotazione originale che come pezzi di ricambio per le parti lesionate o per i cambiamenti di modello via via che il progetto si sviluppava, che i nuovi innesti venivano impiantati sul corpo di Roger con la stessa rapidità con cui i chirurghi gli asportavano l’epidermide naturale.

Di tanto in tanto Roger Torraway si svegliava e si guardava intorno: e sembrava capire e riconoscere ciò che vedeva. I suoi visitatori — un afflusso continuo — qualche volta gli parlavano, qualche volta venivano semplicemente a guardarlo come un campione da laboratorio, da discutere e manipolare senza riguardi personali, quasi fosse una provetta per titolazione. Vern Scanyon andava da lui quasi ogni giorno, e guardava la creazione in atto con un’aria di crescente ripugnanza. — Ha un aspetto orribile, — borbottò. — Ai contribuenti non andrebbe a genio!

— Attento, generale, — ringhiò Kathleen Doughty, interponendo la sua figura enorme tra il direttore e il soggetto. — Come può essere certo che lui non possa sentirla?

Scanyon alzò le spalle e se ne andò per fare il suo rapporto alla segreteria del presidente. Don Kayman entrò mentre il generale usciva. — Grazie, madre di tutto il mondo, — disse in tono serio. — Ti sono grato dell’interesse per il mio amico Roger.

— Già, — rispose irritata Kathleen Doughty. — Ma non è sentimentalismo. Questo poveraccio deve avere un po’ di fiducia in se stesso. Ne avrà bisogno. Sai con quanti amputati e paraplegici ho lavorato? E sai quanti erano stati considerati irrimediabili, condannati a non poter più camminare o muovere un muscolo e neppure ad andare al gabinetto da soli? È tutta questione di forza di volontà, Don, e per averla bisogna credere in se stessi.

Kayman aggrottò la fronte: aveva ancora la mente presa dallo stato d’animo di Roger. — Vorresti contraddirmi? — chiese brusca Kathleen, interpretando quel gesto in modo errato.

— No, affatto! Voglio dire… sii ragionevole, Kathleen: ti sembro proprio io, il tipo capace di contestare la trascendenza dello spirituale rispetto al materiale? Ti sono soltanto riconoscente. Tu sei buona, Kathleen.

— Oh, scemenze, — borbottò lei, serrando le labbra sulla sigaretta. — Mi pagano per questo. E inoltre, — aggiunse, — immagino che tu non sia ancora stato nel tuo ufficio, oggi. C’è un comunicato solenne per tutti di Sua Stellarità il Generale, perché non dimentichiamo l’importanza di ciò che stiamo facendo… e con il delicato accenno che, se facciamo saltare la data del lancio, finiremo tutti in campo di concentramento.

— Come se fosse necessario rammentarcelo, — sospirò padre Kayman, guardando la grottesca figura immota di Roger. — Scanyon è in gamba, ma è portato a credere che tutto quanto fa lui costituisca il fulcro dell’universo. Però questa volta potrebbe aver ragione…