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Era un’affermazione quasi accettabile. Per noi, non c’era dubbio: il più importante anello tra tutte le complesse interrelazioni tra mente e materia era proprio lì: galleggiava sul letto fluidizzato, e sembrava il protagonista di un film giapponese dell’orrore. Senza Roger Torraway, il lancio per Marte non poteva venire effettuato in tempo. Miliardi di persone potevano dubitare dell’importanza della cosa: noi no.

Roger era il fulcro di tutto. Intorno a lui, nel grande palazzo del progetto, si svolgevano tutti gli sforzi ancillari e concomitanti destinati a trasformarlo in ciò che doveva essere. Nella vicina sala operatoria, Freeling, Weidner e Bradley gli innestavano parti nuove. Là sotto, nella vasca marziana normale, dove era morto Willy Hartnett, le stesse parti venivano collaudate nell’ambiente marziano. Qualche volta si verificava un fiasco, in un tempo spaventosamente breve: allora le parti venivano riprogettate, se era possibile, oppure integrate… o qualche volta usate egualmente, tra preghiere e scongiuri.

L’universo si espandeva intorno a Roger, come gli strati di una cipolla. Più lontano, nello stesso edificio, c’era il gigantesco 3070, che ticchettava e ronzava e aggiungeva nuovi segmenti di programmazione per restare al passo dei sistemi di mediazione innestati in Roger ora per ora. Fuori dal palazzo c’era la comunità di Tonka, che sarebbe vissuta o sarebbe morta a seconda dell’andamento del progetto, perché il progetto era il suo datore di lavoro e la sua principale ragion d’essere. Tutto intorno a Tonka c’era il resto dell’Oklahoma, e poi, estendentisi in tutte le direzioni, gli altri cinquantaquattro stati, e intorno ad essi il mondo sconvolto e inferocito, intento a scagliare arroganti note diplomatiche da una capitale all’altra, sul piano politico, e a lottare per la sopravvivenza in ciascuna delle miriadi di esistenze personali.

Coloro che lavoravano al progetto avevano finito per escludersi da quasi tutto quel mondo. Non guardavano i telegiornali, se potevano farne a meno, e dei giornali preferivano leggere solo le pagine sportive. Erano molto indaffarati e non avevano molto tempo libero, ma la vera ragione non era questa. Molto semplicemente, non volevano sapere. Il mondo impazziva, e l’isolamento straniato dentro al gran cubo bianco del palazzo del progetto appariva loro razionale e reale, mentre le sommosse a New York, la guerra con le armi nucleari tattiche intorno al Golfo Persico e la fame di massa in quelle che venivano chiamate «nazioni emergenti» sembravano fantasie inconsistenti. Erano fantasie. O almeno, non avevano importanza per il futuro della nostra razza.

E così Roger continuava a cambiare e a sopravvivere. Kayman trascorreva con lui un tempo sempre più lungo: ogni minuto che poteva sottrarre alla supervisione della vasca marziana. Guardava con affetto Kathleen Doughty che si aggirava per la stanza, spargendo cenere di sigaretta dovunque, tranne su Roger. Ma Kayman era ancora turbato.

Era costretto ad accettare la necessità che Roger venisse dotato di circuiti mediatori per interpretare l’eccesso di input, ma non sapeva trovare una risposta per la domanda che l’assillava: Se Roger non poteva sapere ciò che vedeva, come avrebbe potuto vedere la Verità?

CAPITOLO OTTAVO

CON OCCHI INGANNATORI

Il tempo era cambiato in fretta, e in modo decisivo. Avevamo visto arrivare il cambiamento quando un cuneo di aria polare era sceso dall’Alberta fino al Texas Panhandle. I bollettini meteorologici avevano fatto scendere al suolo gli hovercar. Quelli del progetto che non possedevano veicoli a ruote erano costretti ad andare al lavoro con mezzi di trasporto pubblici, e i parcheggi erano quasi deserti, a parte i grandi, sgraziati grovigli di tumbleweed trascinati dal vento.

Non tutti avevano dato ascolto agli avvertimenti, e ci furono i raffreddori e le influenze del primo vero freddo dell’anno. Brad si mise a letto. Weidner era in piedi, ma non poteva avvicinarsi a Roger per timore di contagiarlo con una malattia di poco conto che tuttavia quello non era in grado di affrontare. Quasi tutto il lavoro per trasformare Roger ricadde su Jonathan Freeling, la cui salute veniva protetta gelosamente quasi come quella del suo paziente, in quel periodo. Kathleen Doughty, solida e indistruttibile, era sempre nella stanza di Torraway, a spargere in giro cenere di sigaretta e a dispensare consigli alle infermiere. Trattatelo come una persona,ordinava. — E copritevi bene, prima di tornare a casa. Potrete mettere in mostra il vostro bel sederino quando vorrete… ma adesso dovete evitare di prender freddo fino a quando potremo fare a meno di voi. — Le infermiere non la contrastavano. Facevano tutte del loro meglio: persino Clara Bly, richiamata dalla luna di miele per sostituire le infermiere ammalate. Erano premurose quanto Kathleen Doughty, sebbene fosse difficile ricordare, guardando la cosa grottesca chiamata ancora Roger Torraway, che si trattava di un essere umano, capace di desideri e di depressioni, esattamente come loro.

Roger cominciava ad essere più cosciente, di tanto in tanto. Per venti e più ore al giorno era addormentato, o immerso in uno stordimento sognante causato dagli analgesici: ma qualche volta riconosceva i presenti, e qualche volta parlava addirittura con loro in modo coerente. Poi lo anestetizzavano di nuovo…

— Vorrei sapere che cosa prova lui, — disse Clara Bly all’infermiera che era venuta a darle il cambio. L’altra ragazza abbassò lo sguardo sulla maschera che era quanto restava della faccia di Roger, con i grandi occhi che erano stati fabbricati apposta per lui. — Forse è meglio per te non saperlo, — disse. — Vai a casa, Clara.

Roger udì quelle parole: la traccia sull’oscilloscopio indicò che le aveva sentite. Studiando la telemetria, noi potevamo farci un’idea di quel che c’era nella sua mente. Spesso soffriva: questo era evidente. Ma il dolore non era il segnale di qualcosa che richiedeva attenzione, né un incitamento all’azione. Era semplicemente una realtà della sua vita. Aveva imparato ad aspettarselo e ad accettarlo. Non era cosciente di molto di più, per quanto riguardava il suo corpo. I sensi della conoscenza fisiologica non avevano ancora imparato ad affrontare la realtà del suo corpo nuovo. Non sapeva quando venivano sostituiti o modificati gli occhi, i polmoni, il cuore, le orecchie, il naso, la pelle. Non sapeva riconoscere i segnali che avrebbero potuto fornirgli qualche informazione. Il sapore del sangue e del vomito in fondo alla gola: come poteva sapere che questo indicava l’assenza dei polmoni? La tenebra, il dolore represso dentro al cranio erano così diversi da tutte le emicranie che aveva provato: come poteva capire cosa significava, come poteva distinguere tra l’asportazione dell’intero apparato ottico e lo spegnersi di un interruttore della luce?

A un certo punto, Roger Torraway si rese conto vagamente di non sentire più il solito odore d’ospedale, deodorante e disinfettante mescolati. Quando? Non lo sapeva. Sapeva soltanto che nel suo ambiente non c’erano più odori.

Poteva udire. Con una acutezza di discriminazione ed un livello di percezione che non aveva mai conosciuto, poteva udire ogni parola che veniva pronunciata nella stanza, anche sottovoce, ed anche quasi tutto ciò che accadeva nelle stanze adiacenti. Udiva ciò che dicevano gli altri, quando era abbastanza cosciente per udire. Comprendeva le parole. Poteva sentire la buona volontà di Kathleen Doughty e di Jon Freeling, e comprendeva la preoccupazione e la collera che colorivano le voci del vicedirettore e del generale.

E soprattutto, poteva sentire il dolore.

C’erano tanti tipi diversi di dolore! C’erano tutte le fitte, in tutte le parti del suo corpo. C’erano le ferite degli interventi chirurgici, e c’erano le pulsazioni rabbiose dei tessuti che erano stati intaccati dalle modifiche principali. C’erano le incessanti, piccole fitte, quando Freeling o le infermiere inserivano gli strumenti in mille punti dolenti della superficie del suo corpo, per poterne studiare i dati.