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— No. Stava bene. Un po’… — Clara ridacchiò. — Un po’ strano, comunque. Ha fatto una specie di osservazione sconcia, che da Roger non mi sarei mai aspettata.

— Uh. — Vi fu una pausa di perplessità. — Bene, non sarà più un problema. Devo andare a controllare le letture. Abbia cura di lui.

Roger pensò che avrebbe dovuto essere molto gentile con Clara; non sarebbe stato difficile, poiché era la sua infermiera preferita. Si distese, ascoltando il fruscio delle ali nere e i suoni ritmici dei pannelli telemetrici. Era molto stanco. Sarebbe stato piacevole dormire…

Si risollevò di scatto. Le luci si erano spente! Poi si riaccesero di nuovo, non appena egli se ne accorse.

Aveva imparato a chiudere gli occhi!

Soddisfatto, Roger si lasciò sprofondare di nuovo nel letto che ondeggiava dolcemente. Era vero: stava imparando.

Lo svegliarono per dargli da mangiare, e poi lo riaddormentarono per l’ultima operazione.

Non vi fu anestesia. — Ci limiteremo a spegnerti, — disse Jon Freeling. — Non sentirai niente. — E in effetti non sentì niente. Lo portarono nella vicina sala operatoria, con i flaconi delle terapie intensive, i cateteri, i sondini e tutto il resto. Roger non poté sentire l’odore del disinfettante, ma sapeva che c’era: percepiva la luminosità raccolta sulle punte di ogni oggetto, il calore dello sterilizzatore, come una raggera sullo sfondo della parete.

Poi il dottor Freeling ordinò di fargli perdere conoscenza, e noi obbedimmo. Deprimemmo uno ad uno i suoi input sensoriali: per lui fu come se i suoni si affievolissero, le luci si offuscassero, le sensazioni tattili si addolcissero. Smorzammo gli input del dolore attraverso tutta la nuova epidermide, li estinguemmo completamente dove avrebbe inciso il bisturi di Freeling e dove sarebbe penetrato l’ago. C’era un problema complesso. Molti degli input del dolore dovevano venir mantenuti anche dopo che Roger fosse guarito. Era necessario che avesse un sistema di segnalazione, quando fosse stato libero sulla superficie di Marte: qualcosa che lo avvertisse se si ustionava, si causava lacerazioni o lesioni; e il dolore era il sistema d’allarme più efficace che potessimo dargli. Ma per la maggior parte del suo corpo, la sofferenza era finita. Mentre estinguevamo gli input li escludevamo programmaticamente dal suo apparato sensoriale.

Roger, naturalmente, non sapeva nulla di tutto questo. Si limitò ad addormentarsi e poi a svegliarsi.

Quando alzò lo sguardo, urlò.

Freeling, che si era rialzato e si sgranchiva le dita, sussultò e lasciò cadere la maschera. — Cosa succede?

Roger disse: — Gesù! Per un momento ho visto… non so. Poteva essere un sogno? Ma vi ho visti tutti intorno a me, intenti a guardarmi, e sembravate un branco di guul. Teschi. Scheletri. Mi guardavate sogghignando! E poi siete tornati come siete.

Freeling guardò Weidner e alzò le spalle. — Credo, — disse, — che fossero semplicemente i tuoi circuiti mediatori all’opera. Capisci? Traducono ciò che vedi in qualcosa che tu puoi afferrare immediatamente.

— Non mi va, — scattò Roger.

— Bene, dovremo parlarne a Brad. Ma francamente, Roger, penso che sia giusto così. Credo che il computer abbia preso tutte le tue sensazioni di paura e di dolore, sai, ciò che prova chiunque quando subisce un’operazione, e le abbia assommate allo stimolo visivo: le nostre facce, le maschere, tutto il resto. Interessante. Mi domando fino a che punto si è trattato di mediazione, e fino a quale era pura e semplice illusione postoperatoria.

— Mi fa piacere che tu lo trovi interessante, — ribatté Roger, irritato.

Ma, in tutta sincerità, anch’egli lo trovava interessante. Quando fu di nuovo nella sua stanza lasciò la propria mente libera di vagare. Non era in grado di evocare a volontà le immagini della fantasia: venivano quando volevano, ma non erano spaventose come quella prima visione terribile di mandibole scarnite e di occhiaie vuote. Quando Clara entrò con la padella e poi se ne andò appena lui la rifiutò con un gesto, guardò la ragazza attraverso la porta che si chiudeva: e l’ombra dell’uscio divenne l’entrata di una grotta, e Clara Bly un orso delle caverne che gli ringhiava contro, irritato. Era un po’ stizzita, pensò: un indizio subsonico sul volto di lei venne registrato dai sensi di Roger, e fu analizzato dal ronzante 3070, nel sotterraneo, e presentato come avvertimento.

Ma quando Clara rientrò, aveva il volto di Dorrie. Poi quel viso si dissolse, si rimodellò nella sua solita pelle scura, negli occhi luminosi, e non somigliò più a Dorrie: ma Roger l’interpretò come un segno che tra loro tutto era ritornato a posto…

Tra lui e Clara.

No, pensò: tra lui e Dorrie. Guardò il telefono accanto al letto. I circuiti del visore erano permanentemente staccati, dietro sua richiesta: non voleva chiamare qualcuno dimenticando che l’altro poteva vederlo. Ma non se ne era mai servito per chiamare Dorrie. Spesso tendeva la mano verso l’apparecchio, ma ogni volta la ritraeva.

Non sapeva che dirle.

Come fai a chiedere a tua moglie se va a letto con il tuo migliore amico? Affronti la questione apertamente e glielo chiedi, diceva l’istinto a Roger: ma non sapeva decidersi a farlo. Non era abbastanza sicuro. Non poteva arrischiarsi a lanciare quell’accusa: poteva sbagliarsi.

Il guaio era che non poteva discuterne con nessuno dei suoi amici. Don Kayman sarebbe stato il confidente ideale, per una cosa del genere: era la funzione del prete. Ma Don era così chiaramente, soavemente, teneramente innamorato della sua graziosa suorina che Roger non poteva addossarsi il dolore di discutere il dolore con lui.

E per quanto riguardava la maggioranza dei suoi amici, il guaio era che, in tutta sincerità, non avrebbero capito i motivi del suo turbamento. Il matrimonio «aperto» era così comune a Tonka, anzi in quasi tutto il mondo occidentale, che erano proprio le poche coppie chiuse a suscitare pettegolezzi. Era molto difficile ammettere di essere gelosi.

E del resto, si disse con fermezza Torraway, non era la gelosia a turbarlo. Non era esattamente la gelosia. Era qualcosa d’altro. Non era il maschilismo siciliano o l’indignazione del proprietario che scopre qualcuno a sollazzarsi nel suo fertile giardino. Era che Dorrie doveva voler amare soltanto lui. Poiché Roger voleva amare soltanto lei…

Si accorse di scivolare verso uno stato d’animo che sicuramente avrebbe fatto squillare il campanello d’allarme sui monitor telemetrici. E questo non lo voleva. Risolutamente, allontanò da sé il pensiero di sua moglie.

Per un po’ si esercitò a «chiudere gli occhi»: era rassicurante saper usare quella facoltà nuova quando lo voleva. Non avrebbe saputo descrivere cosa faceva, come non vi era riuscito Willy Hartnett: ma poteva prendere la decisione di interrompere la ricezione degli input visivi, e i circuiti dentro la sua testa e giù, nella stanza del 3070, riuscivano a convertire quella decisione in tenebra. Poteva addirittura ridurre selettivamente la luce, e poteva ravvivarla. Scoprì che poteva escludere tutte le bande di lunghezza d’onda tranne una, oppure sopprimerne una, o fare in modo che uno o più colori dell’arcobaleno fossero più vivi degli altri.

Era molto soddisfacente, davvero, anche se con il passar del tempo annoiava. Roger avrebbe desiderato poter attendere il pranzo, ma quel giorno il pranzo non vi sarebbe stato: un po’ perché aveva subito un’operazione, un po’ perché lo disabituavano gradualmente a mangiare. Nelle prossime settimane avrebbe mangiato e bevuto sempre meno: al momento di arrivare su Marte, avrebbe avuto bisogno di mangiare soltanto un buon pasto al mese.

Gettò via il lenzuolo e osservò pigramente il manufatto in cui era stato trasformato il suo corpo.

Un secondo più tardi lanciò un grande urlo straziato di paura e di sofferenza. Tutti i monitor telemetrici lampeggiarono di un rosso accecante. Nel corridoio esterno, Clark Bly si voltò di scatto e si precipitò verso la sua porta. Nell’appartamento da scapolo di Brad i campanelli d’allarme squillarono un secondo esatto più tardi, parlandogli di qualcosa di urgente e di grave che lo riscosse da un sonno inquieto ed esausto.