Quando Clara aprì la porta, vide Roger, raggomitolato in posizione fetale sul letto, gemente e disperato. Con una mano si copriva l’inguine, tra le gambe strette. — Roger? Cosa succede?
La testa si rialzò, gli occhi d’insetto la guardarono ciechi. Roger non interruppe i lamenti animaleschi che gli uscivano dalla gola, non parlò. Alzò soltanto la mano.
Lì, tra le gambe, non c’era niente. Niente pene, testicoli, scroto: nient’altro che la lucida pelle artificiale, con un bendaggio trasparente, che nascondeva i segni dell’intervento chirurgico. Era come se non vi fosse mai stato niente. Dei segni diagnostici della virilità… non c’era traccia. La piccola operazione era finita, e non era rimasto nulla.
CAPITOLO NONO
DASH IN VISITA A UN PAZIENTE
A Don Kayman la cosa non andava molto a genio, ma non aveva scelta: doveva andare dal sarto. Purtroppo, il suo sarto stava a Merritt Island, in Florida, all’Atlantic Test Center.
Partì in volo, preoccupato, e arrivò preoccupato. Non solo per quanto era accaduto a Roger Torraway. La situazione sembrava sotto controllo, grazie alla Divina Provvidenza, anche se Kayman non poteva fare a meno di pensare che avevano rischiato di perderlo e che qualcuno aveva commesso un errore gravissimo, non preparandolo per quell’ultimo intervento di «semplice chirurgia estetica». Probabilmente, pensò con spirito caritatevole, era accaduto perché Brad stava male. Ma senza dubbio era mancato poco che saltasse l’intero progetto.
L’altra cosa che lo angustiava era l’impossibilità di sottrarsi alla segreta sensazione peccaminosa, la certezza interiore che, in fondo al cuore, egli si era augurato che il progetto saltasse davvero. Aveva trascorso un’ora dolorosa con suor Clotilda quando la probabilità che egli andasse su Marte si era fatta concreta. Dovevano sposarsi prima? No. No. per ragioni pratiche, pragmatiche: sebbene non vi fosse dubbio che entrambi potevano chiedere o ottenere la dispensa da Roma, non vi erano molte speranze che la dispensa arrivasse in meno di sei mesi.
Se avessero fatto domanda prima…
Ma non l’avevano fatto, ed entrambi sapevano di non essere disposti a sposarsi senza la dispensa, e neppure ad andare a letto insieme senza il sacramento. — Almeno, — aveva detto Clotilda, verso la fine del colloquio, — non dovrai temere che io ti tradisca. Se non infrango i voti per te, non credo che lo farei per nessun altro uomo.
— Non ero preoccupato per questo, — aveva detto Kayman: ma adesso, sotto gli azzurri, splendidi cieli della Florida, mentre guardava i balipedi che si levavano fino a raggiungere le soffici nuvole candide, era preoccupato. Il colonnello dell’esercito che si era offerto di fargli da guida si era accorto che qualcosa turbava Kayman, ma non sapeva come diagnosticare quell’inquietudine.
— Non ci sono pericoli, — disse, sondando a casaccio. — Io non mi darei pensiero per l’orbita del rendezvous a bassa iniezione.
Kayman distolse a forza l’attenzione dai suoi pensieri e disse: — Le assicuro che non ero allarmato per questo. Non so neppure che cosa intenda dire.
— Oh. Beh, solo che inseriremo la sua astronave e i due lanci di supporto in un’orbita più bassa del solito: duecentoventi chilometri anziché quattrocento. Per motivi politici, naturalmente. Mi dà un fastidio tremendo quando i burocrati ci dicono quel che dobbiamo fare, ma questa volta in realtà non fa differenza.
Kayman diede un’occhiata all’orologio. Aveva ancora un’ora da far passare prima di tornare per l’ultima prova della tuta spaziale e della tuta marziana, e non ci teneva a trascorrerla angosciandosi. Giudicò esattamente che il colonnello era uno di quegli individui beati che amano parlare soprattutto del loro lavoro, e che dal canto suo non avrebbe dovuto far altro che borbottare qualcosa di tanto in tanto per indurlo a spiegargli tutto ciò che si poteva spiegare. E borbottò.
— Bene, padre Kayman, — disse il colonnello, in tono espansivo, — le daremo una grossa astronave, vede. Troppo grande, anzi, per lanciarla in una volta sola. Perciò mandiamo su tre capsule, e vi incontrerete in orbita… duecentoventi per duecentotrentacinque, ottimale, e immagino che sarà effettivamente così. E poi…
Kayman annuì, ma senza ascoltarlo veramente. Conosceva già a memoria il piano di volo: faceva parte degli ordini che aveva ricevuto. Gli unici quesiti aperti riguardavano l’identità degli altri due occupanti dell’astronave per Marte; ma sarebbe stata questione di pochi giorni, prima che venisse presa una decisione. Uno doveva essere un pilota, che sarebbe rimasto in orbita mentre gli altri tre si stipavano nel modulo marziano e scendevano sulla superficie del pianeta. Il quarto uomo, idealmente, sarebbe dovuto essere qualcuno in grado di fungere come riserva per il pilota, l’areologo e il cyborg: ma naturalmente una persona così non esisteva. Comunque, era tempo di decidere. I tre esseri umani — i tre esseri umani non modificati, si corresse — non avrebbero avuto, come Roger, la capacità di sopravvivere nudi sulla superficie di Marte. Dovevano provare le tute come faceva lui adesso, e poi avrebbero dovuto sottoporsi a un ripasso finale delle procedure, di cui avevano bisogno tutti, persino Roger.
E al lancio mancavano soltanto trentatré giorni.
Il colonnello aveva finito di descrivere le manovre di aggancio e di rimontaggio, e si preparava a delineare, giorno per giorno, il calendario degli eventi di tutti i lunghi mesi del volo verso Marte. Kayman disse: — Aspetti un momento, colonnello. Non avevo capito bene la questione delle considerazioni politiche. Che c’entrano con il modo in cui partiremo?
Il colonnello borbottò risentito. — Accidenti a quei maniaci dell’ecologia, hanno suggestionato tutti. I razzi vettori Texas Twin sono molto grandi. Sviluppano una spinta venti volte superiore a quella di un Saturn. E quindi hanno uno scarico notevole. Più o meno venticinque tonnellate di vapore acqueo al secondo, moltiplicato per tre astronavi… una quantità molto consistente, insomma. E senza dubbio, c’è qualche rischio che… beh, no, siamo giusti, lo sappiamo maledettamente bene… mi scusi, padre… che tutto quel vapore acqueo, alle altitudini normali delle orbite, liquiderebbe gli elettroni liberi in un vasto tratto di cielo. Lo scoprirono parecchio tempo fa, vediamo… mi pare fosse nel ’73 o nel ’74, quando misero in orbita il primo laboratorio spaziale. Liquidarono gli elettroni liberi in un volume di atmosfera che andava dall’Illinois al Labrador, quando venne misurata. E naturalmente sono quelli che impediscono di prendere l’insolazione. Una delle cose, almeno. Contribuiscono a filtrare la radiazione ultravioletta solare. Cancro della pelle, ustioni, distruzione della flora… beh, è tutto vero: potrebbe succedere. Ma non è della nostra gente che si preoccupa Dash! La Nuova Asia Popolare, ecco che cosa lo assilla. Quelli hanno inviato un ultimatum: se il nostro lancio danneggerà i loro cieli, lo considereranno un «atto di ostilità». Un atto di ostilità! E lei come diavolo lo definisce il fatto che loro fanno sfilare cinque sommergibili nucleari al largo di Cape May, New Jersey? Sostengono che si tratta di ricerche oceanografiche, ma non si adoperano i sommergibili anti-incrociatore per l’oceanografia, almeno nella nostra Marina…
«Comunque, — proseguì il colonnello, rivolgendosi all’ospite con un sorriso, — è tutto a posto. Vi metteremo in orbita per il rendez-vous un po’ più in basso, fuori dallo strato di elettroni liberi. Costerà un maggiore quantitativo di carburante. I venti ascensionali causeranno un inquinamento maggiore, secondo me. Ma in questo modo i loro preziosi elettroni liberi resteranno intatti… non che sia probabile che sopravviverebbero al di là dell’Atlantico fino in Africa, tanto meno in Asia…»