— È stato molto interessante parlare con lei, colonnello. disse cerimonioso Kayman, — ma credo che sia ora di tornare indietro.
Le tute da provare erano pronte. — Basta che s’infili quella, per misurare la grandezza. — Il fisioterapista dell’équipe sogghignò. «Infilarsi» la tuta spaziale richiedeva venti minuti di duro lavoro, anche con l’aiuto dell’intera équipe. Kayman insistette per farlo da solo. A bordo dell’astronave non avrebbe avuto un aiuto, come anche il resto dell’equipaggio, e questo avrebbe avuto da fare: e in caso d’emergenza non poteva contare sull’aiuto di nessuno. Kayman voleva essere pronto per casi del genere. Impiegò un’ora, e poi altri dieci minuti per uscire dalla tuta, dopo che gli specialisti ebbero controllato tutti i parametri ed ebbero sentenziato che tutto andava bene. E c’erano anche tutti gli altri indumenti da provare.
Prima che avesse finito, fuori era buio: una calda notte della Florida. Kayman guardò la fila di indumenti distesi sui banchi da lavoro e sorrise. Indicò la fascia che costituiva l’antenna per le comunicazioni e che pendeva da un polso, la cappa antiradiazioni da usare in caso di eruzioni solari, la calzamaglia da indossare sotto le tute. — Mi avete preparato tutto. Quello è il manipolo, quella è la pianeta, quello il mio camice. Aggiungete qualche altro pezzo, e sarò pronto per dir Messa. — In realtà, aveva incluso una serie completa di paramenti nel carico che gli era permesso portare: e aveva gravemente ridotto lo spazio per i libri, le musicassette e i ritratti di suor Clotilda. Ma non se la sentiva di discuterne con quei profani. Si stiracchiò e sospirò. — C’è un ristorante dove si mangia bene, da queste parti? — chiese. — Una bistecca, o magari un po’ di quella tartaruga rossa di cui parlate tanto… e poi vorrei andare a letto…
L’uomo della Militar Police dell’Aeronautica, che stava lì da due ore a guardare l’orologio, si fece avanti e disse: — Mi dispiace, padre, — disse. — La sua presenza è richiesta altrove, e lei dovrà esserci, vediamo, tra venti minuti circa.
— Dove dovrà essere? Domani mi attende un lungo volo…
— Dolente, signore. Ho l’ordine di accompagnarla al Palazzo dell’Amministrazione alla Base Aerea Patrick. Immagino che là le diranno di che si tratta.
Il prete s’irrigidì. — Caporale, — disse, — non sono sotto la sua giurisdizione. Perciò mi dica cosa vuole.
— No, signore, — riconobbe l’uomo. — Lei non è sotto la mia giurisdizione. Ma ho l’ordine di condurla là, signore, e con tutto il dovuto rispetto, lo farò.
Il fisioterapista sfiorò la spalla di Kayman. — Vada. Don, — disse. — Ho l’impressione che lei sia ormai lanciato nelle alte sfere.
Borbottando, Kayman si lasciò condurre fuori e caricare su una hoverjeep. Il pilota aveva una fretta terribile. Non si prese il disturbo di percorrere le strade, ma puntò diritto verso la risacca, calcolò tempo e distanza e sfrecciò sulla superficie dell’oceano, tra le onde. Poi svoltò verso sud, sparatissimo : in dieci secondi raggiunsero una velocità non inferiore ai centocinquanta chilometri orari. Anche con i compressori al massimo e tre metri d’aria tra loro e l’altezza media dell’acqua, il ritmo brusco delle onde che si accavallavano lì sotto costrinse Kayman a deglutire saliva e a cercare un sacchetto impermeabile, in previsione di doversene servire al più presto. Cercò di convincere il caporale a rallentare. — Dolente, signore. — Era l’espressione favorita dell’MP, a quanto pareva.
Comunque, riuscirono a raggiungere la spiaggia alla Base Patrick prima che padre Kayman vomitasse; e ritornato sulla terraferma, il pilota procedette a velocità ragionevole. Il prete scese vacillando e rimase fermo nella notte umida fino a quando altri due MP, avvertiti via radio del suo arrivo, lo scortarono in un edificio bianco.
Prima che fossero trascorsi dieci minuti, Kayman venne spogliato completamente e perquisito, e comprese a quali alte sfere stava in effetti per accedere.
Il jet presidenziale atterrò a Patrick alle quattro in punto. Kayman aveva sonnecchiato su una sdraio, con una coperta buttata sulle gambe. Venne svegliato con una cortese scrollata e condotto verso la scaletta, mentre le autocisterne rifornivano i serbatoi delle ali in uno strano silenzio. Non c’erano conversazioni, né i tonfi dei tubi di bronzo contro i bocchettoni d’alluminio, solo il rombo delle pompe delle autocisterne.
Qualcuno molto importante dormiva. Kayman si augurò con tutto il cuore di poter dormire anche lui. Venne accompagnato ad una poltroncina con lo schienale reclinabile, legato con la cintura di sicurezza e lasciato lì: e prima ancora che la sua hostess-ausiliaria si allontanasse, il jet si mise in modo sulla pista di decollo.
Kayman cercò di appisolarsi, ma mentre il jet stava ancora salendo verso l’altitudine di crociera, il valletto del presidente arrivò ad annunciargli: — Il presidente vuole vederla subito.
Seduto, le guance rasate di fresco intorno alla barbetta a punta, il presidente Deshatine sembrava il ritratto di se stesso dipinto da Gilbert Stuart. Era seduto tranquillo su una poltrona di cuoio, e con gli occhi sfocati guardava dal finestrino del jet presidenziale, mentre ascoltava in cuffia qualcosa registrato su nastro. Una tazza di caffè fumava accanto al suo gomito, e una tazza vuota attendeva accanto alla caffettiera d’argento. Accanto alla tazza c’era una scatola piatta di pelle purpurea, ornata da una croce argentea.
Dash non fece aspettare Kayman. Girò la testa, sorrise, si tolse la cuffia e disse: — La ringrazio per avermi permesso di rapirla, padre Kayman. Si accomodi, prego. Si serva il caffè, se ne vuole.
— Grazie. — Il valletto si precipitò a versare e si ritirò, mettendosi alle spalle di Don Kayman. Il prete non si voltò; sapeva che il valletto avrebbe spiato ogni tremito dei suoi muscoli, perciò evitò i movimenti bruschi.
Il presidente disse: — Nelle ultime quarantotto ore ho girato tanti fusi orari che ho dimenticato com’è veramente il mondo. Monaco, Beirut, Roma. Ho prelevato Vern Scanyon a Roma quando ho sentito delle difficoltà con Roger Torraway. Mi ero spaventato a morte, padre. Per poco non l’avete perduto, vero?
Kayman disse: — Io sono un areologo, signor presidente. Non è stata responsabilità mia.
— Lasci perdere, padre. Non voglio dar la colpa a nessuno: ci sarebbe tanto da dire, volendo. Mi interessa sapere cos’è successo.
— Sono sicuro che il generale Scanyon potrebbe spiegarglielo meglio di me, signor presidente, — disse Kayman, irrigidendosi.
— Se avessi voluto accontentarmi della versione di Vern, — rispose con pazienza il presidente, — non mi sarei fermato per prendere a bordo lei. E lei era presente. Vern non c’era. Era a Roma, alla Conferenza Pacem in Excelsis del Vaticano.
Kayman bevve un sorso di caffè, in fretta. — Beh, è mancato poco. Credo che Torraway non fosse stato informato adeguatamente di quanto stava per accadere, perché c’era un’epidemia di influenza. Eravamo a corto di personale. Brad non c’era.
— Questo era già accaduto, — osservò il presidente.
Kayman si strinse nelle spalle, senza rispondere. — Lo hanno castrato, signor presidente. Quella che i sultani chiamavano castrazione completa, pene e tutto. Torraway non ne ha bisogno, perché nel suo organismo entrano così poche sostanze consumabili che tutto viene escreto analmente, perciò era semplicemente un punto vulnerabile, nient’altro. Non c’è dubbio, l’asportazione era opportuna, signor presidente.
— E la… come la chiamate? Prostatectomia? Anche quello era un punto vulnerabile?
— Dovrebbe chiederlo a uno dei medici, signor presidente, — rispose Kayman. in tono difensivo.