Per molto tempo non accadde altro.
Roger attese, con tutta la pazienza di cui era capace.
Trascorse altro tempo.
Finalmente disse: — Bene, lo vedo. È un punto. È da parecchio che lo osservo, ed è sempre un punto. Ho notato, — disse, girando la testa, — che riflette abbastanza luce da permettermi di vedere un po’ il resto della stanza, ma questo è tutto.
La voce di Brad echeggiò come un tuono. — Okay, Roger, aspetta e ti daremo qualcosa d’altro.
— Ehi! — esclamò Roger. — Non così forte, okay?
— Non parlavo più forte di prima, — obiettò Brad. E infatti la sua voce si era ridotta a proporzioni normali.
— Okay, okay, — borbottò Roger. Cominciava ad annoiarsi. Dopo un momento apparve un altro punto luminoso, a pochi centimetri dal primo. Rimasero così a lungo, e poi una linea luminosa apparve di colpo tra l’uno e l’altro.
— È molto noioso, — protestò Roger.
— Deve esserlo. — Questa volta era la voce di Clara Bly.
— Salve, — la salutò Roger. — Senti. Adesso vedo bene, con tutta la luce che mi date. Cosa sono tutti i fili che mi avete appiccicato addosso?
Intervenne Brad: — I tuoi sistemi telemetrici, Roger. È per questo che abbiamo dovuto legarti, perché non ti girassi e non imbrogliassi i fili. È tutto su telecomando, adesso, sai. Abbiamo dovuto portar via quasi tutto dalla tua stanza.
— Me ne sono accorto. Va bene, continuate pure.
Ma era tedioso, e tedioso rimase. Non era quel tipo di cose ideate per tener sveglia la mente. Potevano essere importanti, ma erano anche noiose. Dopo una successione interminabile di semplici figure geometriche luminose, a intensità ridotta perché vi fossero meno riflessi per illuminare il resto della stanza, cominciarono a trasmettergli dei suoni: ticchettii, i bip di un oscillatore, una campanella, un sibilo.
Nell’altra stanza, i turni si succedevano. Si fermavano soltanto quando la telemetria indicava che Roger aveva bisogno di sonno, di cibo o della padella. Non erano esigenze frequenti. Roger cominciò a capire chi era di turno, grazie a segni piccolissimi: la sfumatura lievemente beffarda che si sentiva nella voce di Brad solo quando era presente Kathleen Doughty, il trillo più lento, quasi affettuoso dei nastri sonori quando era Sulie Carpenter a controllare le reazioni. Roger scoprì che il suo senso del tempo non era identico a quello degli altri, o a quello della «realtà», qualunque cosa fosse la «realtà». — Era prevedibile, Rog, — disse la voce stanca di Brad, quando glielo disse. — Se ti impegni, scoprirai che puoi controllarlo con la volontà. Puoi scandire i secondi come un metronomo, se vuoi. Oppure muoverti più rapidamente o più rapidamente, a seconda delle necessità.
— E come posso fare? — domandò Roger.
— Diavolo! — insorse Brad. — Il corpo è tuo, impara a servirtene. — Poi, in tono di scusa: — Come hai imparato a bloccare il senso della vista. Prova a sperimentare, fino a quando trovi il sistema. E adesso fai attenzione: sto per trasmetterti una partita di Bach.
In un modo o nell’altro, il tempo passò.
Ma non passò facilmente né rapidamente. Vi erano lunghi periodi in cui il senso alterato del tempo trascinava all’infinito la noia anziché abbreviarla, e momenti in cui, contro la sua volontà, Roger si accorgeva di pensare ancora a Dorrie. L’euforia che gli aveva comunicato la visita di Dash, le premure e l’affetto di Sulie Carpenter… erano cose bellissime; ma non duravano in eterno. Dorrie era una realtà nelle sue fantasticherie, e quando la sua mente era abbastanza vuota per vagabondare, ritornava a Dorrie. Dorrie e i loro primi anni spensierati. Dorrie, e la terribile certezza di non essere più un uomo, di non poter soddisfare le sue esigenze sessuali. Dorrie e Brad…
La voce di Kathleen Doughty scattò: — Non so cosa diavolo tu stia combinando, Roger, ma manda a catafascio tutti i tuoi indici vitali. Piantala.
— Sta bene, — borbottò lui. Scacciò Dorrie dalla sua mente. Pensò alla voce di Kathleen, piena di rancore e d’affetto, a ciò che aveva detto il presidente, a Sulie Carpenter. Si mise tranquillo.
Per ricompensarlo gli mostrarono la diapositiva di un mazzo di violette, a colori.
CAPITOLO DECIMO
GLI SCAMBIETTI DELL’UOMO PIPISTRELLO
Improvvisamente, sorprendentemente, mancavano soltanto nove giorni.
Quando uscì dal condominio dei religiosi, padre Kayman rabbrividì per il freddo, mentre attendeva che Brad passasse a prenderlo per condurlo alla sede del progetto. La scarsità di carburante si era aggravata parecchio nelle ultime due settimane, a causa dei combattimenti in Medio Oriente e dei Combattenti per la Libertà scozzesi che avevano fatto saltare gli oleodotti del Mare del Nord. Il progetto aveva la precedenza per quanto era necessario, anche se alcuni silos missilistici non avevano abbastanza carburante per lanciare i loro razzi; ma tutti i membri del personale erano stati esortati a spegnere le luci, a mettersi d’accordo per andare in ufficio in macchina a gruppi, ad abbassare i termostati nelle rispettive case e a guardare meno la televisione. Una nevicata precoce aveva imbiancato le praterie dell’Oklahoma, e davanti al condominio un seminarista insonnolito spazzava via la neve dai marciapiedi. Non era molta e, pensò Kayman, non era neppure molto bella. Era uno scherzo della sua immaginazione, oppure era veramente grigiastra? Possibile che le ceneri delle foreste in fiamme della California e dell’Oregon avessero contaminato la neve a duemilacinquecento chilometri di distanza?
Brad suonò il claxon, e Kayman sussultò. — Scusami, — disse, salendo a bordo e chiudendo la portiera. — Senti, perché la volta prossima non prendiamo la mia auto? Consuma molto meno carburante della tua macchina.
Brad scrollò le spalle, incupito, e guardò nello specchietto retrovisore. Un altro hovercar, un modello sportivo, leggero, stava girando l’angolo, dietro di loro. — Tanto, guido per due egualmente, — disse il medico. — È lo stesso che mi pedinava martedì. Sono diventati incauti. Oppure vogliono farmi capire bene che mi tengono d’occhio.
Kayman si girò a guardare. L’altra macchina non si preoccupava certo di passare inosservata. — Sai chi è, Brad?
— Perché, hai qualche dubbio?
Kayman non rispose. In effetti, dubbi non ce n’erano. Il presidente aveva detto chiaro a Brad che in nessun caso doveva ronzare intorno alla moglie del mostro: glielo aveva detto nel corso di un colloquio durato mezz’ora e di cui Brad ricordava nitidamente ogni doloroso secondo. Il pedinamento era incominciato subito dopo, per far sì che Brad non lo dimenticasse.
Ma si trattava di un argomento che Kayman preferiva non discutere con Brad. Accese la radio e cercò un notiziario. Ascoltarono per alcuni minuti notizie censurate ma egualmente sconvolgenti di disastri vari, fino a quando Brad, senza dire una parola, allungò la mano e spense l’apparecchio. Poi procedettero in silenzio, sotto il cielo plumbeo, finché raggiunsero il gran cubo bianco del progetto, solo nella prateria desolata.
Là dentro non c’era nulla di grigio; le luci erano forti e brillanti; le facce erano stanche, talvolta preoccupate, ma erano vive. Lì dentro, almeno, pensò Kayman, c’era un’atmosfera di attività e di finalità. Il progetto procedeva secondo la tabella oraria.
E tra nove giorni l’astronave marziana sarebbe stata lanciata, e lui stesso sarebbe stato a bordo.
Kayman non aveva paura. Aveva orientato la propria vita in attesa di quel momento, sin dai primi giorni trascorsi in seminario, quando aveva compreso di poter servire il suo Dio anche senza salire su un pulpito, ed era stato incoraggiato dal padre superiore a coltivare il suo interesse non solo teologico ma anche astrofisico per il cielo. Comunque, era un pensiero opprimente.