— Da te mi aspetto anche di meglio, Roger, — esclamò Kathleen. — Quindi devi imparare a controllare i muscoli.
Roger emise un ringhio che non era neppure una parola, poi si alzò. — Compensate il vano stagno, — disse. — Voglio uscire.
Il tecnico toccò un interruttore e le grandi pompe cominciarono a riversare l’aria nel vano stagno con un suono simile a quello di un pezzo di linoleum lacerato. — Oh, — gemette Sulie Carpenter, a fianco di Don Kayman. — Non ho messo le lenti a contatto! — E scappò via prima che Roger entrasse nella sala.
Kayman la seguì con lo sguardo. Un enigma era risolto: adesso sapeva perché gli era parso che la ragazza avesse qualcosa di strano. Ma perché mai Sulie portava le lenti a contatto che facevano sembrare verdi i suoi occhi castani?
Scrollò le spalle e non ci pensò più.
Noi sapevamo il perché. Avevamo faticato parecchio per trovare Sulie Carpenter. I fattori critici costituivano un lungo elenco, e le voci meno importanti erano proprio il colore dei capelli e quello degli occhi, perché era facile cambiarli entrambi.
Con l’avvicinarsi della data di partenza, la posizione di Roger cominciò a cambiare. Per due settimane non era stato altro che un pezzo di carne sul banco del macellaio, affettato, rigirato e tagliato, senza la minima partecipazione personale, senza la possibilità di controllare quanto gli accadeva. Poi era stato uno studente, che eseguiva gli ordini degli insegnanti, e imparava a dominare i propri sensi e ad usare i nuovi arti. Era una fase di transizione, da esemplare di laboratorio a semidio, e ormai era quasi arrivato alla meta.
Roger si rendeva conto che stava accadendo questo. Da diversi giorni, ormai, discuteva tutto ciò che gli dicevano di fare, e talvolta rifiutava di obbedire. Kathleen Doughty non era più la sua padrona, capace di ordinargli di alzare cento volte il mento e di fare piroette per un’ora. Era una sua dipendente, e lo aiutava in ciò che lui voleva fare. Brad, che era diventato meno spensieratamente spiritoso e molto più attento, adesso chiedeva favori a Roger: — Prova questi test di discriminazione dei colori, ti dispiace? Farà una bella figura nel saggio che sto preparando su di te. — Spesso Roger li assecondava, ma qualche volta non voleva saperne.
Quella che assecondava più spesso era Sulie Carpenter, perché era sempre presente ed era sempre premurosa con lui. Roger aveva quasi dimenticato che somigliava tanto a Dorrie. Si accorgeva solo che lei era molto bella.
Sulie si adeguava ai suoi guizzi d’umore. Se Roger era nervoso, lei era gaiamente serena. Se lui voleva parlare, parlava. Spesso giocavano: Sulie era un’esperta giocatrice di Scarabeo. Una volta, a tarda notte, quando Roger cercava di stabilire per quanto tempo riusciva a rimanere sveglio, Sulie aveva portato una chitarra. Aveva cantato, e la piacevole, discreta voce di contralto della ragazza aveva abbellito il bisbiglio di lui, incolore e quasi afono. Il volto di lei era cambiato, mentre Roger lo guardava: ma aveva imparato come doveva fare. I circuiti d’interpretazione del suo sensorio riflettevano i suoi sentimenti quando egli lo permetteva; e talvolta Sulie Carpenter somigliava a Dorrie più di Dorrie stessa.
Quando egli ebbe finito le prove di quel giorno nella vasca marziana, Sulie fece a gara con lui nel tornare di corsa alla sua stanza: una ragazza ridente contro un pesante mostro, lungo gli ampi corridoi del laboratorio: vinse lui senza difficoltà, naturalmente. Chiacchierarono un po’, e poi Roger la mandò via.
Nove giorni alla partenza.
In realtà, si trattava di un periodo ancora più breve. Roger sarebbe stato condotto in aereo a Merritt Island tre giorni prima del lancio, e durante il suo ultimo giorno di permanenza a Tonka avrebbero provveduto ad adattargli il computer a zaino e a risintonizzare alcune parti del suo sistema sensoriale sulle tipiche condizioni marziane. Quindi gli restavano sei giorni… no, cinque.
E non vedeva Dorrie da intere settimane.
Si guardò nello specchio che aveva fatto installare: occhi d’insetto, ali di pipistrello, epidermide lucida. Si divertì a lasciar fluire le sue interpretazioni visive: pipistrello, mosca gigante, demonio… se stesso, così come si ricordava, con una faccia simpatica, giovanile.
Se almeno Dorrie avesse avuto a disposizione un computer per mediare la propria vista! Se avesse potuto vederlo così come era un tempo! Giurò a se stesso che non l’avrebbe chiamata; non poteva costringerla a vedere quella macchina da fumetti che era diventato suo marito.
E appena ebbe giurato, prese il telefono e fece il numero di Dorrie.
Fu un impulso irresistibile. Attese. Il suo senso del tempo, estensibile come una fisarmonica, prolungò l’attesa, e trascorse un’eternità prima che lo schermo cominciasse a lampeggiare e il cicalino dell’altoparlante trasmettesse il primo squillo.
Poi il tempo lo tradì di nuovo. Gli parve che trascorressero secoli, prima che giungesse il secondo squillo. Poi risuonò, e durò un’eternità, e cessò.
Dorrie non rispondeva.
Roger era il tipo che faceva caso a queste cose, e sapeva che molte persone non rispondono prima del terzo squillo. Dorrie, però, era sempre curiosa di conoscere chi mai era colui o colei che il telefono portava nella sua vita. Sia che fosse profondamente addormentata, sia che si trovasse nella vasca da bagno, ben di rado lasciava squillare l’apparecchio più di due volte.
Finalmente giunse il terzo squillo, e anche stavolta non ci fu risposta.
Roger cominciò a soffrire.
Si dominò meglio che poteva, perché non voleva far suonare l’allarme nei monitor telemetrici. Ma non riuscì a dominarsi completamente. Dorrie era uscita, pensò. Suo marito era diventato un mostro, e lei non era in casa a soffrire o a preoccuparsi: era uscita a far spese, o trovare un’amica, o a vedere un film.
Oppure era con un uomo.
Che uomo? Brad, pensò Roger. Non sarebbe stato impossibile; aveva lasciato Brad giù, davanti alla vasca, venticinque minuti prima, secondo l’orologio. Avevano avuto tutto il tempo per incontrarsi da qualche parte. Anzi, Brad aveva avuto addirittura il tempo di arrivare a casa Torraway. Forse Dorrie non era uscita. Forse…
Il quarto squillo…
Forse erano là, tutti e due, nudi, e si accoppiavano sul pavimento, davanti al telefono. Dorrie avrebbe detto: — Vai nell’altra stanza, tesoro, voglio vedere chi è. — E Brad avrebbe detto, ridendo: — No, rispondiamo così. — E lei avrebbe detto…
Quinto squillo… e lo schermo fiorì dei colori del viso di Dorrie. La sua voce disse: — Pronto?
Rapido come il suono, il pugno di Roger scattò e coprì la lente. — Dorrie, — disse. La sua voce gli sembrava aspra e inespressiva. — Come stai?
— Roger! — esclamò lei. La gioia di quel tono sembrava autentica. — Oh, tesoro, sono così felice di sentirti! Come va?
La voce di Roger rispose, automaticamente: — Benissimo. — Poi prosegui, senza bisogno di collaborazione da parte della sua mente conscia, a correggere l’affermazione, a raccontare ciò che gli accadeva, catalogando i test e gli esercizi. E nello stesso tempo scrutava lo schermo, con tutti i sensi acuiti al massimo.
Dorrie appariva… cosa? Stanca? Quella stanchezza confermava le paure di Roger. Lei se la spassava con Brad ogni notte, senza pensare al marito sofferente e umiliato. Riposata e gaia? Anche l’aria riposata e gaia era una conferma. Significava che lei si divertiva… senza preoccuparsi dei tormenti del marito.
Non c’era nulla che non andasse nel cervello di Torraway, poiché era abituato da sempre all’analisi e alla logica. Si rendeva perfettamente conto che il gioco che giocava con se stesso si chiamava «Tu perdi comunque». Tutto costituiva una prova della colpa di Dorrie. Eppure, sebbene egli scrutasse meticolosamente l’immagine di lei con quei suoi sensi potenziati, Dorrie non appariva ostile né affettatamente affettuosa. Era Dorrie e basta.