Quando pensò questo, Roger provò uno slancio di tenerezza che gli spezzò la voce. — Mi sei mancata tanto, tesoro, — disse, senza espressione. L’unica cosa che tradiva i suoi sentimenti fu il distacco d’una frazione di secondo prima dell’ultima sillaba: — Teso… ro.
— Mi sei mancato anche tu. Ho cercato di fare qualcosa, per tenermi occupata, caro, — cinguettò Dorrie. — Ho cominciato a ridipingere la tua stanza. È una sorpresa, ma naturalmente passerà tanto tempo prima che tu la veda… Beh, è color pesca. Con i pannelli di legno in color ranuncolo… e magari dipingerò il soffitto in celeste chiaro. Ti piace? Avevo pensato di farla tutta ocra e bruno, sai, i colori dell’autunno, i colori di Marte, per commemorare. Ma poi mi sono detta che quando ritornerai sarai stufo dei colori marziani! — Poi in fretta, senza pause: — Quando ti vedrò? — Il cambiamento di tono colse Roger di sorpresa.
— Beh, sono abbastanza orribile, — disse lui.
— Lo so come sei. Buon Dio, Roger, credi che Midge, Brenda e Callie ed io non ne abbiamo parlato in questi ultimi due anni? Fin dall’inizio del programma. Abbiamo visto i disegni. Abbiamo visto le foto dei modelli. E anche le foto di Willy.
— Non sono più come Willy. Hanno cambiato molte cose…
— E so anche questo, Roger. Brad mi ha raccontato tutto. Vorrei vederti.
In quel momento il viso di sua moglie divenne, senza preavviso, la faccia d’una strega. L’uncinetto che aveva in mano divenne una pesante scopa di saggina. — Vedi spesso Brad?
Vi fu una pausa d’un microsecondo, prima che lei rispondesse? — Penso che non avrebbe dovuto dirmelo, — fece, — per via della sicurezza e tutto il resto. Ma io ho voluto che me lo dicesse egualmente. Non è un gran male, tesoro. Non sono una bambina. Posso sopportarlo.
Per un attimo, Roger provò l’impulso di togliere la mano dalla lente e di farsi vedere, ma si sentiva strano, confuso. Non sapeva interpretare ciò che provava. Era vertigine? Una disfunzione della metà di lui che era una macchina? Sapeva che di lì a pochi istanti Sulie o Don Kayman o qualcun altro si sarebbe precipitato nella stanza, messo sull’avviso dagli apparecchi telemetrici. Si sforzò di dominarsi.
— Forse più tardi, — disse, senza convinzione. — Credo… credo che adesso farei bene a riattaccare, Dorrie.
Dietro di lei, anche il soggiorno di casa loro stava cambiando. La profondità del campo della lente non era delle migliori: persino per i suoi sensi meccanici il resto della stanza era confuso. C’era un uomo in piedi nell’ombra? Portava la camicia da ufficiale dei Marines? Era Brad?
— Adesso devo riattaccare, — disse: e lo fece.
Entrò Clara Bly, agitata, e cominciò a fare domande. Roger scosse il capo senza dir nulla.
Nei suoi occhi nuovi non c’erano ghiandole lacrimali, perciò naturalmente non poteva piangere. Gli era negato persino quel conforto.
CAPITOLO UNDICESIMO
DOROTHY LOUISE MINTZ TORRAWAY NELLA PARTE DI PENELOPE
Le nostre proiezioni di tendenza avevano mostrato che era venuto il momento di far sapere al mondo la verità sul conto di Roger Torraway, verruche e tutto. Perciò era venuto fuori tutto, e ogni schermo televisivo del mondo aveva mostrato Roger sulle punte in una dozzina di perfetti fouettés, tra un primo piano dei morti di denutrizione del Pakistan e gli incendi di Chicago.
Tutto ciò servì a fare di Dorrie una celebrità. La chiamata di Roger l’aveva sconvolta. Non quanto il biglietto con cui Brad le aveva comunicato che non avrebbero più potuto vedersi, non quanto i quarantacinque minuti che il presidente aveva trascorso con lei per farle capire ciò che poteva succedere se si fosse permessa di turbare il suo astronauta prediletto. Certamente non quanto la certezza di essere pedinata, di avere il telefono sotto controllo e la casa sicuramente piena di microfoni nascosti. Ma non aveva saputo come comportarsi con Roger. Temeva che non l’avrebbe saputo mai, e non le dispiaceva affatto pensare che tra pochi giorni egli sarebbe stato lanciato nello spazio: allora, almeno per un anno e mezzo, non sarebbe stata costretta a preoccuparsi dei loro rapporti.
E non le dispiaceva affatto quell’improvviso fulgore pubblicitario.
Adesso che i giornali sapevano tutto, i telecronisti erano accorsi a vederla: e aveva potuto ammirare la propria espressione coraggiosa nel telegiornale delle sei. Fem stava per mandarle qualcuno. Quel qualcuno telefonò per prendere appuntamento. Era sulla sessantina, veterana del Movimento di Liberazione della Donna; e disse con degnazione: — È una cosa che non facciamo mai, intervistare qualcuna solo perché è la moglie di qualcun altro. Ma quelli ci tengono. Non ho potuto rifiutare l’incarico, ma voglio essere sincera con lei, e ci tengo a farle sapere che mi sembra una cosa disgustosa.
— Mi dispiace, — fece Dorrie in tono di scusa. — Vuole che disdica l’intervista?
— Oh, no, — disse la donna, parlando come se fosse colpa di Dorrie, — non è colpa sua, ma lo ritengo un tradimento nei confronti di tutto ciò che Fem rappresenta. Non importa. Verrò a casa sua. Faremo un servizio di quindici minuti per l’edizione in videocassetta, e io scriverò un pezzo per l’edizione stampata. Se può…
— Io… — cominciò Dorrie.
— … cerchi di parlare di se stessa, anziché di lui. La sua vita. I suoi interessi. Il suo…
— Mi dispiace, ma sinceramente preferirei…
— … pensiero sul programma spaziale e così via. Dash dice che si tratta di un obiettivo americano fondamentale e che da questo dipende l’avvenire del mondo. Lei che ne pensa? Non’voglio che mi risponda adesso, voglio…
— Non voglio l’intervista in casa mia, — disse Dorrie, interrompendola, senza attendere una pausa nella conversazione.
— … che ci pensi sopra, e mi risponda davanti alla telecamera. Non le va bene a casa sua? No, non è possibile. Saremo lì tra un’ora.
Dorrie si ritrovò a parlare con un puntolino luminoso che si spegneva sullo schermo. — Puttana, — disse, quasi distrattamente. Non le dispiaceva che l’intervista si svolgesse in casa sua. Le dispiaceva di non avere una possibilità di scelta. Questo le bruciava molto. Ma non poteva farci niente, a meno di andarsene prima che arrivasse l’inviata di Fem.
Dorrie Torraway, anzi Dee Mintz, teneva molto alle sue possibilità di scelta. Una delle cose che l’avevano attirata inizialmente verso Roger, a parte il fascino del programma spaziale, e la sicurezza e il danaro che ne costituivano il corollario — e a parte lo stesso Roger, con quella sua aria simpatica da stallone — era il fatto che lui era sempre disposto ad ascoltare i suoi desideri. Gli altri uomini pensavano soprattutto a quel che volevano loro, e questo cambiava da un uomo all’altro, ma non cambiava nell’ambito dei rapporti con un dato individuo. Harold voleva sempre ballare e andare alle feste, Jim voleva sempre fare all’amore, Everett voleva fare all’amore e andare alle feste, Tommy voleva un impegno politico, Joe voleva premure materne. Roger, invece, voleva esplorare il mondo insieme a lei, e sembrava disposto a esplorarne le parti che interessavano a lei non meno delle parti che erano importanti per lui.
Non si era mai pentita di averlo sposato.
Era rimasta sola molte volte. Cinquantaquattro giorni mentre Roger era nella Stazione Spaziale Tre. Tante altre missioni più brevi. Due anni in giro per il mondo, a lavorare con l’intero sistema delle stazioni di controllo a terra, da Aquisgrana allo Zaire, senza avere una vera casa da nessuna parte. Dorrie dopo un po’ si era stancata, ed era tornata nell’appartamento di Tonka. Ma non le era dispiaciuto. Forse era dispiaciuto a Roger: quel problema non le era mai passato per la mente. Comunque, si erano visti abbastanza di frequente. Roger arrivava a casa ogni mese od ogni due mesi, e lei si dava da fare. C’era il negozio: lo aveva aperto mentre Roger era in Islanda, con l’assegno da cinquemila dollari che lui le aveva inviato in dono per il suo compleanno. C’erano le sue amiche. C’erano, di tanto in tanto, degli uomini.