Tutto ciò non era servito a riempire la sua vita, ma Dorrie non lo pretendeva neppure. Si era abituata a star sola. Era figlia unica, e sua madre non aveva mai potuto soffrire i vicini, perciò non aveva mai avuto molte amicizie. Del resto, anche i vicini non potevano soffrire sua madre, perché sua madre era una drogata, e quasi tutti i pomeriggi era come se non ci fosse, il che complicava l’esistenza di Dorrie. Ma a lei non dispiaceva: non sapeva che esistessero altri modi di vivere.
A trentun anni, Dorrie era sana, graziosa, capace di affrontare il mondo, così come era stata in passato e come sarebbe stata in futuro. Si considerava felice. Quella diagnosi non scaturiva da un tripudio di gioia interiore. Derivava dalla constatazione obiettiva che, quando voleva qualcosa, l’otteneva sempre: e quale altra definizione della felicità poteva essere più valida?
Approfittò del tempo che le restava prima dell’arrivo di Ms. Hagar Hengstrom e dei suoi collaboratori di Fem per disporre una collezione di ceramiche del suo negozio sul tavolino, davanti al divano su cui intendeva sedersi. I minuti che le restarono li dedicò al compito meno importante di spazzolarsi i capelli, controllare il trucco e indossare il suo abito nuovo con i pantaloni ornati di pizzo.
Quando suonò il campanello, Dorrie era pronta.
Ms. Hagar Hengstrom le strinse vigorosamente la mano ed entrò, con i capelli di un azzurro vivo e un sigaro nero. La seguirono la datrice di luci, la fonica, l’addetta alla telecamera e i ragazzi addetti all’ambientazione. — La stanza è piccola, — borbottò, scrutando con disprezzo l’arredamento. — Torraway si siederà là. Muovetevi.
I ragazzi si precipitarono a spostare una poltrona, dalla finestra all’angolo occupato da un mobiletto, che trascinarono al centro della stanza. — Aspetti un momento, — fece Dorrie. — Pensavo di sedermi qui sul divano…
— Allora, come va con l’esposimetro? — domandò la Hengstrom. — Sally, attacca con la telecamera. Non si sa mai quel che possiamo utilizzare come sfondo per i titoli di testa.
— Dico sul serio, — fece Dorrie.
La Hengstrom la guardò. La voce non si era alzata troppo, ma il tono era minaccioso. Scrollò le spalle. — Mi lasci fare, — propose. — E se poi non le piacerà ne riparleremo. Mi racconti tutto, eh?
— Raccontare tutto cosa? — La ragazza pallida, notò Dorrie, puntava su di lei la telecamera a mano: e questo l’irritava. La datrice di luci aveva trovato una presa a muro e reggeva dei riflettori con entrambe le mani, spostandoli delicatamente per cancellare le ombre che si formavano appena Dorrie si muoveva.
— Beh, tanto per cominciare, che progetti ha per i prossimi due anni? Sicuramente non avrà intenzione di star qui ad aspettare che Roger Torraway torni a casa.
Dorrie tentò di dirigersi verso il divano, ma la datrice di luci aggrottò la fronte e le accennò di muoversi nell’altra direzione, e due dei ragazzi spinsero via il tavolino con le ceramiche. Dorrie disse: — Ho il mio negozio. Pensavo che le facesse piacere inquadrare qualcuno dei miei pezzi mentre mi intervistava…
— Benissimo, sicuro. Volevo dire personalmente. Lei è una donna sana. Ha delle esigenze sessuali. Un po’ più indietro, prego… Sandra riceve un ronzio nell’audio.
Dorrie si trovò in piedi davanti alla poltrona, e le sembrò che non vi fosse altro da fare che sedere. — Naturalmente… — cominciò.
— Lei ha una responsabilità, — disse la Hengstrom. — Che esempio intende dare alla gioventù femminile? Trasformarsi in una vecchia zitella inacidita? Oppure vivere una vita piena, naturale?
— Non so se ci tengo a discutere…
— Mi sono informata sul suo conto, Torraway. E quel che ho scoperto mi piace. Lei appartiene a se stessa… per quanto è possibile per una persona che accetta la farsa ridicola del matrimonio. Lei perché lo fa?
Dorrie esitò. — Roger è veramente una cara persona, — dichiarò.
— E con questo?
— Ecco, voglio dire, mi ha dato sempre conforto e appoggio…
Hagar Hengstrom sospirò. — La solita vecchia psicologia della schiava. Lasciamo perdere. L’altra cosa che mi rende perplessa è il fatto che si sia lasciata invischiare nel programma spaziale. Non pensa che sia una trovata maschilista?
— Ma no. Me l’ha detto il presidente in persona, — disse Dorrie, tentando di segnare qualche punto a proprio favore nell’eventualità di un’altra visita di Dash. — Ha detto che mandare un uomo su Marte era assolutamente indispensabile per il futuro della razza umana. Io gli credo. È nostro dovere…
— Ripeta, — ordinò la Hengstrom.
— Cosa?
— Ripeta quello che ha appena detto. Mandare cosa, su Marte?
— Un uomo. Oh. Capisco ciò che vuol dire.
La Hengstrom annuì tristemente. — Capisce ciò che voglio dire, ma questo non cambia il suo modo di pensare. Perché un uomo? Perché non una persona? — Lanciò un’occhiata di commiserazione alla fonica, che scosse il capo con fare comprensivo. — Bene, passiamo a qualcosa di più importante. Sa che l’equipaggio del volo per Marte dovrebbe essere formato soltanto da maschi? Cosa ne pensa?
Fu una mattinata terribile, per Dorrie. E non riuscì a fare inquadrare le sue ceramiche.
Quando Sulie Carpenter prese servizio quel pomeriggio, portò a Roger due sorprese: una cassetta dell’intervista, prestata dall’ufficio pubbliche relazioni (leggasi: censura) del progetto, e una chitarra. Prima gli consegnò la cassetta, e lasciò che Roger guardasse l’intervista mentre gli rifaceva il letto e cambiava l’acqua ai fiori.
Quando Roger ebbe finito, Sulie disse allegramente: — Tua moglie si è comportata benissimo, mi pare. Ho incontrato Hagar Hengstrom, una volta. È una donna molto difficile.
— Dorrie stava molto bene, — disse Roger. Era impossibile leggere un’espressione sul volto ricostruito o captarla nei toni piatti della voce, ma le ali di pipistrello svolazzavano irrequiete. — Mi sono sempre piaciuti, quei pantaloni.
Sulie annuì e prese nota mentalmente: le larghe strisce laterali di pizzo lasciavano scoperta una gran quantità di carne. Evidentemente gli steroidi impiantati nell’organismo di Roger facevano l’effetto dovuto. — E adesso ho un’altra cosa, — disse, e aprì l’astuccio della chitarra.
— Vuoi suonare per me.
— No, Roger. Suonerai tu.
— Non so suonare la chitarra, Sulie, — protestò lui.
La ragazza rise. — Ho parlato con Brad, — disse, — e credo che resterai sorpreso. Non sei semplicemente diverso, vedi, Roger. Sei migliore. Le tue dita, per esempio.
— Cos’hanno le mie dita?
— Beh, io suono la chitarra da quando avevo nove anni, e se smetto per un paio di settimane i calli scompaiono e devo ricominciare daccapo. Le tue dita non hanno bisogno dei calli: sono abbastanza dure e salde per premere le corde in modo perfetto, fin dalla prima volta.
— Magnifico, — disse Roger. — Ma non so neppure di cosa stai parlando. Perché devo premerle?
— Così. Senti. — Sulie strimpellò un accordo in sol, poi in re e poi in do.
— Adesso prova tu, — disse. — Devi stare attento a una cosa soltanto: non usare troppa forza. La chitarra è fragile. — E gli porse lo strumento.
Roger passò il pollice sulle corde, come aveva visto fare da lei.
— Benissimo. — Sulie applaudì. — Adesso un sol. L’anulare sul terzo tasto della corda alta del mi… là. L’indice sul secondo tasto del mi. Il medio sul tasto del mi basso. — Gli guidò le mani. — Adesso suona.