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Roger strimpellò e alzò la testa verso di lei. — Ehi, — disse. — Mica male.

Sulie sorrise e lo corresse. — Non «mica male». Perfetto. Ora, questo è un do. Indice sul secondo tasto della corda del si, il medio qui, l’anulare lì… Bene. E questo è un accordo in re: indice e medio sulle corde del sol e del mi, là, l’anulare un tasto più in giù sul si… Perfetto, di nuovo. Adesso dammi un sol.

Con sua grande sorpresa, Roger strimpellò un sol perfetto.

La ragazza sorrise ancora: — Visto? Brad aveva ragione. Appena impari un accordo, lo conosci: il 3070 lo ricorda per te. Basta che tu pensi «accordo in sol», e le tue dita lo eseguono. Adesso, — aggiunse, in tono di rammarico burlesco, — sei di circa tre mesi più avanti di dove mi sono ritrovata io la prima volta che ho provato a suonare la chitarra.

— È molto divertente, — disse Roger, provando tutti e tre gli accordi, uno dopo l’altro.

— È solo l’inizio. Adesso strimpella quattro battute: sai, dum, dum, dum, dum. Con un accordo in sol… — Sulie ascoltò, poi approvò con un cenno del capo. — Benissimo. Adesso fai così: sol, sol, sol, sol, sol, sol, sol, sol, la, la, sol, sol, sol, sol, sol, sol… Bene. Adesso ancora, ma questa volta, dopo la, la, fai re, re, re, re, re, re… Benissimo ancora. Adesso eseguili tutti e due, uno dopo l’altro…

Roger suonò, e Sulie cantò con lui: — Kumbaya, my lord. Kumbaya! Kumbaya, my lord. Kumbaya…

— Ehi! — esclamò Roger, felice.

Sulie scosse il capo, fingendosi avvilita. — Sono passati tre minuti da quando hai preso in mano per la prima volta la chitarra, e sei già un discreto accompagnatore. Ecco, ti ho portato un testo sugli accordi e qualche pezzo facile. Quando tornerò, dovresti essere già capace di suonarli tutti, e comincerò a insegnarti il pizzicato, il glissando e il martelletto.

Gli mostrò come si faceva a leggere la tabulatura di ogni accordo e lo lasciò soddisfatto, intento a decifrare le prime sei modulazioni del fa.

Appena uscì dalla stanza di Roger, si fermò per togliersi le lenti a contatto, si soffregò gli occhi e si diresse verso l’ufficio del direttore. La segretaria di Scanyon le fece cenno di passare.

— È soddisfatto della sua chitarra, generale, — riferì Sulie. — Un po’ meno soddisfatto di sua moglie.

Vern Scanyon annuì, e girò una manopola dell’apparecchio che stava sulla scrivania: dal microfono situato nella stanza di Roger arrivò il suono degli accordi per «Kentucky Babe». Scanyon lo spense. — So della chitarra, maggiore Carpenter. E la moglie?

— Temo che lui la ami, — disse Sulie, lentamente. — Va tutto bene, fino a un certo punto. Oltre quel punto, credo che siamo nei guai. Io posso tenerlo su di morale finché resta qui, ma poi se ne andrà per parecchio tempo e… non sono sicura.

Scanyon scattò, brusco: — Sputi l’osso, maggiore!

— Credo che sentirà la mancanza di sua moglie e noi potremo rimediare solo in parte. Va già abbastanza male adesso. L’ho osservato mentre guardava quella cassetta. Non muoveva un muscolo, concentrazione assoluta: non voleva che gli sfuggisse nulla. Quando sarà a sessanta milioni di chilometri da lei… Beh, ho registrato tutto, generale. Eseguirò una simulazione con il computer, e dopo, forse, potrò essere più precisa. Ma sono preoccupata.

— Lei è preoccupata! — sbottò Scanyon. — Dash vorrà la mia testa se porto Torraway lassù e quello crolla.

— Cosa posso dirle, generale? Mi lasci eseguire la simulazione. Allora, forse, potrò dirle cosa possiamo fare.

Sulie sedette senza essere invitata e si passò le mani sulla fronte. — Vivere una doppia vita è pesante, generale, — dichiarò. — Otto ore come infermiera e otto ore come psichiatra non sono una cosa divertente.

— Dieci anni di servizio nell’Antartide è meno divertente ancora, — si limitò a osservare Vern Scanyon.

Il jet presidenziale raggiunse l’altitudine di crociera di 31.000 metri e accelerò al massimo… Mach 3 e qualcosa, una velocità grottescamente superiore anche a quella prevista per il CB-5 presidenziale. Ma Deshatine aveva fretta.

La Conferenza al Vertice di Midway si era conclusa con un insuccesso. Disteso sul divano con gli occhi chiusi, fingendo di dormire per non essere scocciato dai senatori che l’avevano accompagnato, Dash esaminò lugubremente le possibilità di scelta. Non erano molte.

Non aveva sperato molto dalla conferenza, che comunque era incominciata bene. Gli australiani avevano dichiarato che avrebbero accettato una collaborazione limitata della Nuova Asia Popolare per lo sviluppo dell’entroterra, purché venissero fornite adeguate garanzie, eccetera eccetera. I delegati della Nuova Asia Popolare si erano consultati sottovoce e avevano annunciato che sarebbero stati lieti di fornire le garanzie, poiché il loro unico, vero scopo consisteva esclusivamente nel contribuire a sopperire alle esigenze vitali di tutta la popolazione mondiale, considerata come un tutto unico indipendentemente dagli antiquati confini nazionali, eccetera. Dash aveva zittito i mormoni dei suoi consiglieri e aveva dichiarato che l’America si interessava alla conferenza solo per assicurare assistenza e buoni uffici ai due cari vicini, e non voleva nulla per sé, eccetera; e per un po’, per quelle due ore, era sembrato che la conferenza potesse portare a un risultato concreto, positivo.

Poi avevano cominciato a discutere i dettagli. Gli asiatici offrivano un’Armata del Suolo forte di un milione di uomini, più una quantità di navi cisterna che ogni settimana avrebbero portato dodici milioni di litri di liquame estratto dalle fogne di Shangai. Gli australiani avevano accettato il fertilizzante, ma avevano parlato di un massimo di cinquantamila asiatici per coltivare la terra. Inoltre, avevano fatto educatamente osservare, che siccome sarebbero stati sfruttati il suolo australiano e la luce solare australiana, quello che sarebbe cresciuto sarebbe stato grano australiano. Il rappresentante del Dipartimento di Stato aveva ricordato a Dash gli impegni americani con il Perù, e con una stretta al cuore Dash si era alzato per insistere nel chiedere almeno una concessione del 15 per cento del prodotto ai buoni vicini del continente sudamericano. E avevano incominciato a saltare i nervi, un po’ a tutti. L’incidente che aveva fatto precipitare la situazione era stato causato da un aereo spola della Nuova Asia Popolare, che era incappato in uno stormo di albatross a zampe nere mentre decollava dalla pista di Sand Island ed era precipitato in fiamme su un’isoletta della laguna, sotto gli occhi dei membri della conferenza raccolti sul giardino pensile del Holiday Inn. Allora erano cominciate a correre parole grosse. Il membro giapponese della delegazione della Nuova Asia Popolare aveva trovato il coraggio di dire ciò che fino a quel momento si era limitato a pensare: la pretesa americana di tenere la conferenza sul luogo di una delle battaglie più famose della seconda guerra mondiale era un deliberato affronto agli asiatici. Gli australiani avevano osservato che, siccome loro erano riusciti benissimo a controllare le popolazioni degli uccelli selvatici, non capivano come mai gli americani non fossero stati capaci di fare altrettanto. E dopo tre settimane di preparativi e due giorni di speranza, il solo risultato era stato un gelido comunicato per annunciare che le tre potenze avevano convenuto di proseguire le discussioni. Chissà quando. Chissà dove. Non molto presto.

Ma la verità, ammise Dash mentre si agitava irrequieto sul divano, era che quel confronto era avvenuto faccia a faccia. Qualcuno avrebbe dovuto cedere, e nessuno era stato disposto a farlo.

Si alzò e chiese il caffè. Quando glielo portarono, arrivò anche un biglietto scarabocchiato sulla carta intestata della Casa Bianca Volante, e firmato da uno dei senatori: «Signor Presidente, prima di atterrare dobbiamo sistemare la proclamazione delle aree disastrate.»