Dash appallottolò il foglio. Era il senatore Talltree, che aveva un sacco di lagnanze da presentare. Il lago Altus si era ridotto al venti per cento delle sue dimensioni normali, il turismo nelle Arbuckle Mountains era finito perché le cascate Turner non gettavano più acqua, la Fiera Statale di Sooner era stata abolita a causa delle tempeste di polvere. L’Oklahoma doveva venir dichiarata «area disastrata». Lui aveva da pensare a cinquantaquattro stati, rifletté Dash, e se avesse dato ascolto a tutti i senatori e a tutti i governatori, avrebbe dovuto proclamare cinquantaquattro aree disastrate. In realtà, vi era un’unica area disastrata. Si dava soltanto il caso che fosse grande quanto il mondo.
E io che me lo sono cercato, questo lavoro, si disse, quasi con stupore.
Pensare all’Oklahoma gli ricordò Roger Torraway. Per un momento ebbe l’idea di chiamare il pilota per dirottare l’aereo verso Tonka. Ma la riunione con i Capi di Stato Maggiore non poteva essere rinviata. Sarebbe stato costretto ad accontentarsi del telefono.
Non era veramente lui a suonare la chitarra, pensò Roger, ma era il 3070 che ricordava tutti i movimenti e comandava alle sue dita di fare ciò che decideva il suo cervello. Aveva impiegato meno di un’ora ad imparare tutti gli accordi del testo, e ad usarli con scioltezza. Qualche altro minuto per registrare nella banca dei dati il significato dei segnali del tempo: poi i suoi orologi ulteriori si erano impadroniti dei tempi e non aveva più dovuto preoccuparsene. Per quanto riguardava la melodia, imparò quale tasto su ogni corda corrispondeva ad ogni nota su un rigo musicale; una volta impressa sui nuclei magnetici, la corrispondenza tra la musica stampata e la corda pizzicata era stabilita per sempre. Sulie impiegò dieci minuti a mostrargli quali note dovevano essere diesis e quali bemolle: e da quel momento la galassia di diesis e di bemolle sparsi sul rigo al segno di chiave non gli incusse più spavento. Il pizzicato: per i sistemi nervosi umani, occorrono due minuti per imparare il principio e cento ore di esercizi prima che diventi automatico: pollice sulla corda del re, anulare sul mi alto, medio sul si, pollice sul la, anulare sul mi, medio sul si e così via. Ma due minuti d’apprendimento bastarono a Roger. A partire da quel momento i circuiti comandarono le sue dita, e l’unico limite al suo tempo fu costituito dalla velocità con cui le corde potevano produrre una nota senza spezzarsi.
Roger stava suonando a memoria un recital di Segovia, dopo averne ascoltato il nastro una sola volta, quando arrivò la telefonata del presidente.
Un tempo, Roger si sarebbe sentito invaso dalla soggezione e dalla gioia, ad una chiamata del presidente degli Stati Uniti. Adesso era una seccatura: lo costringeva ad abbandonare la sua chitarra. Ascoltò appena ciò che aveva da dire il presidente. Fu colpito dalla preoccupazione che leggeva sul viso di Dash, dai segni profondi che solo pochi giorni prima non c’erano, dagli occhi infossati. Poi si accorse che i suoi circuiti interpretativi esageravano ciò che vedeva per richiamare la sua attenzione sui cambiamenti; escluse i circuiti di mediazione e vide Dash com’era in realtà.
Comunque, era divorato dalla preoccupazione. La voce era tutta calore e cameratismo quando chiese a Roger come andavano le cose. Aveva bisogno di qualcosa? Era necessario prendere a calci qualcuno per sistemare le cose? — Va tutto benissimo, signor presidente, — disse Roger, che si divertiva a lasciare che i suoi occhi trasformassero il presidente in un Babbo Natale, con la barba bianca e il berretto rosso orlato di pelliccia, e un sacco di doni intangibili sulle spalle.
— È sicuro, Roger? — insistette Dash. — Non dimentichi quel che le ho detto: qualunque cosa voglia, basta che la chieda a me.
— Le farò un fischio, — promise Roger. — Ma vado benissimo. Aspetto con ansia il lancio. — E aspetto che tu molli il telefono, pensò, annoiato dalla conversazione.
Il presidente aggrottò la fronte. Gli interpretatori di Roger cambiarono immediatamente l’immagine: Dash era ancora Babbo Natale, ma nero come l’ebano e con zanne enormi. — Non è troppo sicuro di sé, per caso? — domandò Dash.
— Beh, e come potrei accorgermene, se lo fossi? — chiese Roger in tono ragionevole. — Ma non credo. Lo domandi allo staff, qui: quelli possono informarla sul mio conto molto meglio di me.
Riuscì a concludere la conversazione dopo un breve scambio di frasi; sapeva che il presidente era insoddisfatto e vagamente turbato, ma non gli importava troppo. Le cose che gli importavano diventavano sempre meno numerose, pensò Roger. E poi era stato sincero: aspettava veramente il lancio con ansia. Avrebbe sentito la mancanza di Sulie e di Clara. In fondo alla sua mente era lievemente preoccupato dei pericoli e della durata del viaggio. Ma era euforico al pensiero di ciò che avrebbe trovato al suo arrivo lassù: il pianeta di cui era diventato l’abitante ideale.
Riprese la chitarra e ricominciò con Segovia, ma non riuscì bene come avrebbe desiderato. Dopo un po’ si rese conto che il dono del timbro assoluto era anche uno svantaggio: la chitarra di Segovia non era stata intonata a un perfetto la 440, era bemolle di qualche Hertz, e la sua corda del re era quasi di un quarto di tono relativamente ancora più bemolle. Scrollò le spalle — le ali di pipistrello svolazzarono, a quel gesto — e posò lo strumento.
Per un momento restò seduto sulla poltrona che usava per suonare, con lo schienale diritto e senza braccioli, e lasciò campo libero ai propri pensieri.
Qualcosa lo turbava. E quel qualcosa si chiamava Dorrie. Suonare la chitarra era piacevole e rilassante, ma oltre quel piacere v’era una fantasticheria: lui stesso, seduto sul ponte di una barca a vela, insieme a Dorrie e a Brad, si faceva prestare con disinvoltura la chitarra di Brad e li sbalordiva tutti.
Misteriosamente, tutti i processi della sua vita culminavano in Dorrie. Suonare la chitarra aveva lo scopo di allietare Dorrie. L’orrore del suo aspetto stava nel fatto che avrebbe deluso Dorrie. Tutte queste cose avevano perduto in parte la loro carica di sofferenza, ed egli poteva esaminarle con una serenità che solo poche settimane prima sarebbe stata impossibile: ma erano ancora lì, sepolte profondamente dentro di lui.
Tese la mano verso il telefono, e poi la ritrasse.
Chiamare Dorrie non era abbastanza. Aveva già provato.
Ciò che voleva veramente era vederla.
Naturalmente era impossibile. Non era autorizzato a lasciare il palazzo del progetto. Vern Scanyon si sarebbe infuriato. Le sentinelle l’avrebbero bloccato sulla porta. La telemetria avrebbe rivelato immediatamente ciò che stava facendo: la sorveglianza elettronica a circuito chiuso l’avrebbe individuato ad ogni passo, tutte le risorse del progetto sarebbero state mobilitate per impedire che se ne andasse.
E chiedere l’autorizzazione era inutile. Neppure chiedendola a Dash: il massimo che poteva accadere era che il presidente impartisse un ordine e che Dorrie venisse recapitata nella sua stanza, costretta e furibonda. Roger non voleva che Dorrie venisse costretta a venire da lui, ed era sicuro che non gli avrebbero permesso di andare da lei.
D’altra parte…
D’altra parte, rifletté, che bisogno aveva del permesso?
Pensò per un minuto, assolutamente immobile sulla seggiola.
Poi ripose meticolosamente la chitarra nell’astuccio e si mosse.
Per prima cosa si chinò verso la parete, strappò una presa di corrente e vi infilò un dito. L’unghia di rame era solida come una moneta. Le valvole saltarono. Le lampade della stanza si spensero. Il dolce fruscio e gli scatti delle bobine dei registratori rallentarono e cessarono. La stanza divenne buia.
C’era ancora calore, e come luce era sufficiente, per gli occhi di Roger. Vedeva abbastanza bene per potersi staccare di dosso i cavi della telemetria. Uscì dalla porta prima ancora che Clara Bly, intenta a versare la panna in una tazza di caffè, si voltasse verso il ronzio del quadro dei monitor.