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— Qualcosa di che genere?

— Per calmare la gente. Se non lo beve tutto, le metteranno una guardia armata dietro la schiena.

Per accontentarla Roger vuotò il bicchiere, ma si chiese come una donna con quelle illusioni e quelle paure avesse potuto ottenere così rapidamente il visto dello psichiatra. I cinque minuti che lui aveva trascorso con il frugacervelli aveva rafforzato il suo spirito di autoosservazione, e con una parte della mente era intento ad analizzare. Perché si sentiva inquieto in presenza di quella donna? Non certo perché aveva modi così tradizionalisti e conservatori. Forse perché lei ammirava tanto il suo coraggio. Roger aveva tentato di spiegarle che per fare l’astronauta non occorreva più coraggio che per pilotare un aereo da trasporto, probabilmente meno che per guidare un tassi. Certo, era realmente pericoloso essere la riserva del progetto Man Plus: ma solo se tutti gli uomini che lo precedevano nell’elenco si fossero tolti di mezzo, e le probabilità non erano tali da preoccuparlo molto. Comunque, Kathleen Doughty continuava a guardarlo con un’intensità che in certi momenti sembrava ammirazione e in altri pietà.

Con l’altra parte della sua mente, come sempre, Roger pensava a sua moglie. Quando entrò, finalmente, era furiosa e, per lei, in disordine. Aveva impiegato un’ora a raccogliersi sulla testa i capelli, e adesso erano sciolti. Le arrivavano alla cintura, ed erano una magnifica cascata di spuma nera che la faceva somigliare a un’Alice disegnata da Tenniel, se Tenniel a quei tempi avesse lavorato per Playboy. Roger si precipitò a placarla, un’impresa che assorbì la sua attenzione, al punto che fu colto di sorpresa quando sentì un movimento improvviso intorno a sé e udì qualcuno annunciare, con voce non troppo alta né troppo formale: — Signore e signori, il Presidente degli Stati Uniti.

Fitz-James Deshatine entrò dispensando grandi sorrisi e cenni del capo; era identico a quel che sembrava in televisione, però era più basso. Senza bisogno che nessuno li istruisse, quelli del laboratorio si disposero in semicerchio, e il presidente fece il giro, stringendo la mano a tutti, con il direttore del progetto al fianco, che faceva le presentazioni. Deshatine era stato splendidamente informato. Da buon politico, aveva l’abitudine di ricordare ogni nome e di formulare qualche osservazione personale. A Kathleen Doughty disse: — Mi fa piacere vedere un’irlandese in questo gruppo, dottoressa Doughty. — A Roger disse: — Noi ci siamo già incontrati, colonnello Torraway. Dopo la magnifica impresa con i russi. Vediamo, deve essere stato sette anni fa, quando ero presidente della commissione senatoriale. Forse lo ricorderà. — Roger ricordava, certamente: e fu lusingato, consapevolmente, che il presidente ricordasse. A Dorrie disse: — Santo cielo, Mrs. Torraway, come mai una bella donna come lei si è sprecata con uno di questi noiosi scienziati? — Roger si irrigidì un po’ nell’udire quella frase: non perché sminuisse lui, ma perché era il genere di complimento ozioso che Dorrie aveva sempre sdegnato. Ma questa volta lei non lo sdegnò. Poiché veniva dal presidente degli Stati Uniti, le fece brillare gli occhi. — Che bell’uomo, — mormorò, seguendolo con lo sguardo mentre faceva il giro.

Quando Deshatine ebbe completato il semicerchio, balzò sul piccolo podio e disse: — Bene, amici, io sono venuto qui per guardare e ascoltare, non per parlare. Ma voglio ringraziarvi tutti per aver sopportato con tanta pazienza i controlli cui vi hanno sottoposti. Mi dispiace. Non è stata un’idea mia. Mi dicono che è necessario, finché ci sono in giro tanti pazzi. E finché i nemici del Mondo Libero sono quello che sono, e noi continuiamo ad essere così aperti e così fiduciosi. — Rivolse un sorriso a Dorrie, direttamente. — Mi dica, le hanno fatto immergere le unghie in qualcosa, prima di lasciarla entrare?

Dorrie rise, una risata musicale che sbalordì suo marito. (Si era lamentata, rabbiosamente, che le avevano rovinato lo smalto.) — Certo, signor presidente. Proprio come la mia manicure, — rispose.

— Mi rincresce. Dicono che serve ad assicurare che lei non abbia qualche veleno biochimico segreto per graffiarmi quando ci diamo la mano. Beh, bisogna fare quel che dicono loro, credo. Comunque, — aggiunse, ridacchiando, — se voi belle signore pensate che sia una seccatura, dovreste vedere come si comporta la mia vecchia gatta quando lo fanno a lei. È stata una fortuna che non avesse del veleno sulle unghie, l’ultima volta. Ha graffiato tre uomini del Servizio segreto, mio nipote e due dei suoi micini, prima che la scena fosse finita. — Deshatine rise, e Roger fu un po’ sorpreso quando si accorse che Dorrie e gli altri gli facevano eco.

— Comunque, — disse il presidente, entrando in argomento, — vi sono grato per la vostra cortesia. E vi sono mille volte più grato per l’impegno con cui lavorate al progetto Man Plus. E superfluo che io vi dica cosa significa per il Mondo Libero. Lassù c’è Marte, l’unico territorio del sistema solare che valga la pena di conquistare, a parte quello su cui ci troviamo in questo momento. Entro la fine del decennio dovrà appartenere a qualcuno. Le possibilità sono soltanto due. O apparterrà a loro, o apparterrà a noi. E io voglio che sia nostro. Voi siete quelli che lo renderanno possibile, poiché sarete voi a darci il Man Plus, l’Uomo Più che vivrà su Marte. Desidero ringraziarvi sinceramente, dal più profondo del cuore, in nome di tutti gli esseri umani dei paesi democratici del Mondo Libero, perché rendete possibile questo sogno. Ed ora, — aggiunse, smorzando con un cenno della mano un tentativo di applauso educato, — credo sia ora che io smetta di parlare e incominci ad ascoltare. Voglio vedere come va il nostro Man Plus. Generale Scanyon, ora tocca a lei.

— Bene, signor presidente.

Vern Scanyon era il direttore del laboratorio del Grissom Memorial Institute of Space Medicine. Era anche un generale con due stelle in pensione, e si comportava sempre come tale. Controllò l’orologio, diede un’occhiata al suo assistente (qualche volta lo chiamava «il mio aiutante di campo») per chiedere conferma e disse: — Manca ancora qualche minuto prima che il comandante Hartnett termini i test preparatorii. Seguiamolo per un minuto sul circuito chiuso. Poi cercherò di spiegare quanto accadrà oggi.

Le luci si abbassarono.

Dietro il podio si illuminò un teleschermo. Si udì uno scalpiccio, quando uno dei «camerieri» spostò una sedia per far accomodare il presidente. Questi borbottò qualcosa. La sedia venne tirata più indietro, e il presidente annuì, scuro nel riflesso luminoso dello schermo, e alzò la testa.

Il teleschermo mostrava un uomo.

Non sembrava un uomo. Si chiamava Will Hartnett. Era un astronauta, democratico, metodista, marito, padre, suonatore dilettante di timpano, ottimo ballerino. Ma non sembrava niente di tutto questo. A vederlo, era un mostro.

Non pareva affatto umano. Gli occhi erano globi sfaccettati, rossolucenti. Le narici si aprivano tra le pieghe della carne, come il muso d’una talpa stellata. La pelle era artificiale e aveva il colore di una normale abbronzatura, ma la robustezza della pelle di un rinoceronte. Non c’era nulla, in lui, che avesse l’aria di essere una caratteristica innata. Occhi, orecchi, polmoni, naso, bocca, sistema circolatorio, centri della percezione, cuore, pelle… tutto era stato sostituito o potenziato. I cambiamenti visibili altro non erano che la punta dell’iceberg. Ciò che avevano fatto dentro di lui era di gran lunga più complesso e più importante. Hartnett era stato ricostruito, con l’unico scopo di metterlo in condizioni di restare in vita, senza l’aiuto di apparecchi esterni, sulla superficie del pianeta Marte.

Era un cyborg: un organismo cibernetico. Era in parte uomo e in parte macchina, e le due sezioni distinte erano fuse insieme in modo che lo stesso Will Hartnett, guardandosi nello specchio le rare volte in cui gli era permesso di vederne uno, non sapeva quanto di lui fosse veramente suo e quanto fosse stato aggiunto.