Roger aveva ottenuto un risultato migliore di quanto sperava: anche nel corridoio le luci si erano spente. C’erano alcune persone, lì fuori, ma nell’oscurità non potevano vedere nulla. Roger le superò e scese la scala di sicurezza a quattro gradini alla volta, prima che gli altri si accorgessero della sua fuga. Il suo corpo funzionava con scioltezza ed eleganza. Le lezioni di ballo imposte da Kathleen Doughty avevano dato buoni frutti: Roger scese le scale a passo di danza, varcò una porta con un plié, balzò lungo un corridoio e uscì nella fredda aria notturna prima che l’agente del servizio di sicurezza alla porta alzasse la testa dal televisore.
Roger era all’aperto, e correva sulla superstrada, verso la città di Tonka, a settanta chilometri orari.
La notte era rischiarata da luci che egli non aveva mai visto. In alto c’era una massa compatta di nubi, cumuli-strati che arrivavano veloci dal nord e dense nuvole più alte: tuttavia, riusciva a scorgere fiochi bagliori là dove filtravano le radiazioni delle stelle più fulgide. Ai lati della strada, la prateria dell’Oklahoma brillava lugubremente dello scarso calore residuo assorbito durante il giorno, punteggiata da chiazze luminose là dove c’erano case o fattorie. Le macchine, sulla superstrada, erano seguite da grandi piume di luce, luminose nel punto in cui uscivano dai tubi di scappamento, più rosse e cupe quando le nubi di gas caldo si espandevano nell’aria gelida. Quando entrò in città, Roger vide ed evitò i rari pedoni, tutti simili a luminose figure di Halloween, che splendevano cupamente del calore irradiato dei loro corpi. Gli edifici intorno avevano catturato un po’ di calore, alla fine della giornata, e altro ne riversavano dal riscaldamento centrale: e splendevano come lucciole.
Si arre’stò all’angolo della strada di casa sua. C’era una macchina con due uomini a bordo, parcheggiata di fronte alla porta. Un segnale d’allarme gli lampeggiò nel cervello, e la macchina diventò un carro armato, con l’howitzer puntato contro la sua testa. Non era un problema. Roger cambiò rotta e attraversò correndo i cortili posteriori, scalando staccionate e insinuandosi attraverso i cancelli; e arrivato a casa sua estroflesse le unghie di rame e si arrampicò su per il muro esterno.
Era ciò che voleva fare. Non soltanto evitare gli uomini a bordo della macchina ferma lì fuori, ma realizzare una fantasia: il momento in cui avrebbe fatto irruzione nella stanza di Dorrie passando dalla finestra, per sorprenderla… a far cosa?
Nella realtà, la sorprese mentre stava seguendo un film in seconda serata alla televisione. Aveva i capelli impiastricciati di crema colorante, ed era a letto, appoggiata ai cuscini, e mangiava tutta sola un piatto di gelato.
Quando egli spinse la finestra che non era bloccata ed entrò strisciando, Dorrie si girò verso di lui.
E urlò.
Non fu soltanto un grido: fu un’immediata crisi isterica. Dorrie rovesciò il gelato e schizzò giù dal letto. Il televisore cadde e si schiantò sul pavimento. Singhiozzando, Dorrie si appoggiò contro la parete più lontana, con gli occhi convulsamente chiusi, coprendoseli con i pugni.
— Scusami, — disse impacciato Roger. Avrebbe voluto avvicinarsi, ma il buon senso lo trattenne. Dorrie appariva molto indifesa e attraente, con quel giubbino trasparente e quelle mutandine da bikini.
— Scusami, — ansimò lei; lo guardò, distolse gli occhi e, brancolando, si avviò verso il bagno, sbattendosi la porta alle spalle.
Bene, pensò Roger, non aveva torto: si rendeva conto di quanto doveva essere sembrato grottesco, quando era entrato dalla finestra così all’improvviso. — Avevi detto che sapevi com’ero, — le gridò.
Dal bagno non giunse nessuna risposta: solo, un attimo dopo, lo scorrere dell’acqua. Roger si guardò intorno. La stanza era esattamente com’era sempre stata. Gli armadi erano pieni dei suoi abiti e degli abiti di Dorrie, come sempre. Negli spazi dietro ai divani, come sempre, non c’erano amanti nascosti. Roger non era molto orgoglioso di frugare l’appartamento come un cornuto medievale, ma non smise fino a quando fu certo che Dorrie era sola.
Il telefono squillò.
I riflessi fulminei spinsero Roger a staccare il microfono dalla nicchia quasi prima che risuonasse il primo ronzio, con tanta rapidità e brutalità che gli si deformò nella mano. Lo schermo scintillò e poi si spense di nuovo, poiché i circuiti erano collegati al sonoro. — Pronto? — fece Roger. Ma nessuno rispose: lui stesso aveva fatto in modo che nessuno potesse più servirsi di quell’apparecchio.
— Cristo, — disse. Non aveva avuto un’idea chiara di come sarebbe andato quell’incontro, ma era evidente che era incominciato molto male.
Quando Dorrie uscì dal bagno non piangeva: ma non parlò neppure. Andò in cucina senza guardarlo. — Voglio una tazza di tè, — disse, girando appena la testa.
— Non preferisci che ti prepari qualcosa da bere? — offrì Roger, speranzoso.
— No.
Roger sentì i suoni del bricco elettrico che veniva riempito, il fievole sussurro quando cominciò a sobbollire e, molte volte, un colpo di tosse. Ascoltò più intensamente e udì il respiro di sua moglie diventare più lento e regolare.
Sedette sulla poltrona che era sempre stata la sua preferita e attese. Le ali gli davano fastidio. Sebbene si innalzassero automaticamente sopra la sua testa, non poteva appoggiarsi alla spalliera. Si aggirò irrequieto nel soggiorno. La voce di sua moglie gli arrivò oltre la porta: — Vuoi un po’ di tè?
— No, — disse Roger. Poi aggiunse: — No, grazie. — In realtà gli sarebbe piaciuto moltissimo, non perché sentisse il bisogno di liquidi o sostanze nutrienti, ma per avere la sensazione di partecipare insieme a Dorrie ad un evento normale, compiuto tante volte in passato. Ma non ci teneva a rovesciarselo addosso proprio davanti a lei, e non aveva fatto molti esercizi con tazza e piattini e liquidi.
— Dove sei? — Dorrie esitò sulla porta, con la tazza in mano, e poi lo vide. — Oh. Perché non accendi una lampada?
— Non voglio. Tesoro, siedi e chiudi gli occhi per un momento. — Gli era venuta un’idea.
— Perché? — Tuttavia ella obbedì, sedette su una poltrona a fianco del falso caminetto. Roger sollevò la poltrona, con lei sopra, e la girò in modo che Dorrie fosse rivolta verso il muro. Si guardò intorno, cercando dove poteva sedersi: non c’era niente, o almeno niente che si accordasse con la sua nuova geometria, cuscini sul pavimento e divani, tutti scomodi per il suo corpo e le sue ali. Ma d’altra parte, sapeva che non aveva particolarmente bisogno di sedersi. Alla sua muscolatura artificiale non occorreva quel genere di distensione.
Perciò rimase in piedi dietro a Dorrie e disse: — Mi sentirei meglio se tu non mi guardassi.
— Lo capisco, Roger. Mi avevi spaventata, ecco tutto. Se non avessi fatto irruzione in quel modo dalla finestra! D’altra parte, io non avrei dovuto sentirmi così sicura di poterti vedere, voglio dire così, senza… senza farmi prendere da una crisi isterica, ecco quel che voglio dire.
— Lo so, che aspetto ho, — disse lui.
— Comunque sei sempre tu, non è vero? — chiese Dorrie al muro. — Anche se non ricordo che tu abbia mai scalato un edificio per infilarti nel mio letto.
— È facile, — disse Roger, approfittando di quello che era quasi un tentativo di scherzare.
— Bene, — disse lei, interrompendosi per sorseggiare il tè, — dimmi. Cos’è successo?
— Volevo vederti, Dorrie.
— Mi avevi vista. Al telefono.
— Non volevo vederti al telefono. Volevo stare nella stessa stanza con te. — Lo desiderava, e più ancora toccarla, sfiorarle la nuca e premere e accarezzare i tendini perché si rilassassero, ma non osava. Invece si chinò e accese la fiamma a gas nel caminetto, non tanto per il calore, quando per avere un po’ di luce, per aiutare Dorrie. E perché facesse un po’ di allegria.