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— Non dobbiamo farlo, Roger. C’è una multa di mille dollari…

Egli rise. — Non per te e per me, Dorrie. Se qualcuno ti dà noia, chiama Dash e digli che io ho detto che mi stava bene.

Sua moglie prese una sigaretta da una scatola sul tavolino e l’accese. — Roger, caro, — disse lentamente. — Non sono abituata a tutto questo. Non mi riferisco solo al tuo aspetto. Questo lo capisco. È difficile, ma almeno sapevo come sarebbe andata, prima ancora che accadesse. Anche se non pensavo che toccasse a te. Ma non sono abituata al fatto che tu sia così… non so, importante.

— Non ci sono abituato neppure io, Dorrie. — Roger ripensò ai telecronisti e alle folle acclamanti quando era tornato sulla Terra dopo aver salvato i russi. — Adesso è diverso. Ho l’impressione di portare qualcosa sulle spalle… il mondo, forse.

— Dash dice che è proprio ciò che stai facendo. Metà di quel che dice è retorica, ma non penso che questo lo sia. Sei un uomo veramente importante, Roger. Sei sempre stato famoso. Forse è per questo che ti ho sposato. Ma era un po’ come se tu fossi stato un divo del rock, capisci? Era emozionante, però tu potevi sempre piantarla, se te ne stancavi. Ma questa volta, non credo che tu possa smettere.

Dorrie spense la sigaretta. — Comunque, — disse, — tu sei qui, e al progetto probabilmente saranno impazziti.

— Posso sistemare tutto.

— Sì, — disse lei, pensierosa. — Credo di sì. Di cosa dobbiamo parlare?

— Brad, — disse Roger. Non ne aveva avuto l’intenzione. La parola gli uscì dalla laringe artificiale, modellata dalle labbra ristrutturate, senza interventi da parte della sua mente conscia.

Sentì Dorrie irrigidirsi. — Che c’entra Brad? — domandò lei.

— C’entra che vai a letto con lui, ecco che c’entra Brad, — disse Roger. La parte posteriore del collo di Dorrie luceva cupamente, adesso, ed egli sapeva che se avesse potuto vederle la faccia avrebbe scorto l’intrico rivelatore delle vene. Le fiamme a gas che danzavano nel caminetto gettavano un piacevole arcobaleno di colori sui suoi capelli scuri: Roger osservò quel gioco, attentamente, come se non avesse importanza ciò che diceva a sua moglie, o che lei gli diceva.

Dorrie fece: — Roger, davvero, non so che fare. Sei arrabbiato con me?

Lui guardò in silenzio la danza dei colori.

— Dopotutto, Roger, ne avevamo già parlato anni fa. Tu hai avuto delle relazioni, e le ho avute anch’io. Avevamo detto che non erano importanti.

— Sono importanti, quando fanno male. — Roger ordinò alla vista di bloccarsi, e accolse l’oscurità come un aiuto al suo pensiero. — Gli altri erano diversi, — disse.

— Diversi come? — Dorrie era indignata, adesso.

— Diversi perché ne parlavamo, — continuò lui, ostinato. — Quando io ero ad Algeri e tu non sopportavi quel clima, era una cosa. Quello che hai fatto quando sei tornata a Tonka e quello che io ho fatto ad Algeri non ha influito sui nostri rapporti. Quando io ero in orbita…

— Non sono mai andata a letto con nessuno, quando tu eri in orbita!

— Lo so, Dorrie. Pensavo che era molto bello da parte tua. Lo pensavo, perché non sarebbe stato giusto, vero? Voglio dire, io di occasioni ne avevo poche. Il vecchio Yuli Bronin non era il mio tipo. Ma adesso è diverso. È come se fossi di nuovo in orbita, ma è peggio. Non c’è neppure Yuli! Non solo non ho una ragazza, non ho neppure l’armamentario per combinare qualcosa, se anche la ragazza l’avessi.

Dorrie rispose, depressa: — Tutto questo lo so. Che cosa posso dirti?

— Puoi dirmi che sarai una buona moglie! — ruggì il cyborg.

Questo la spaventò: Roger aveva dimenticato cosa poteva sembrare la sua voce. Dorrie si mise a piangere.

Tese la mano per sfiorarla, ma poi la lasciò cadere. A che serviva?

Oh Cristo, pensò. Che pasticcio. Lo consolava solo il pensiero che il colloquio si era svolto lì, nell’intimità di casa loro, non pianificato in anticipo, e segreto. Sarebbe stata insopportabile la presenza di chiunque altro: ma noi, naturalmente, avevamo intercettato ogni parola.

CAPITOLO DODICESIMO

DUE SIMULAZIONI E UNA REALTÀ

Roger dalle dita di rame aveva fatto saltare più di una valvola. Aveva mandato in corto un’intera scatola di interruttori di circuiti. Ci vollero venti minuti perché tornasse la luce.

Per fortuna il 3070 aveva energia di riserva per la sua memoria, perciò i nuclei magnetizzati non furono cancellati. I calcoli che erano in corso risultarono compromessi. Sarebbe stato necessario rifarli di nuovo. La sorveglianza automatica rimase fuori uso per molto tempo, dopo che Roger se ne fu andato.

Una delle prime persone che vennero a sapere cos’era successo fu Sulie Carpenter, che sonnecchiava nell’ufficio accanto alla sala computer e attendeva che finisse la simulazione riguardante Roger. La simulazione non finì. I campanelli d’allarme che indicavano l’interruzione dell’elaborazione delle informazioni la svegliarono. Le fulgide lampade fluorescenti erano spente, e soltanto quelle rosse a incandescenza irradiavano un chiarore fioco e deprimente.

Il primo pensiero di Sulie fu per la sua preziosa simulazione. Passò venti minuti con i programmatori, a studiare i risultati in chiaro parziali, augurandosi che tutto andasse bene, poi vi rinunciò e si precipitò nell’ufficio di Vern Scanyon. E allora scoprì che Roger era scappato.

Intanto la corrente era ritornata: era tornata mentre lei faceva a due per volta i gradini della scala di sicurezza. Scanyon era già al telefono, e chiamava ad una riunione d’emergenza le persone che considerava colpevoli. Fu Clara Bly a riferire a Sulie quel che aveva fatto Roger; uno ad uno, via via che entravano gli altri, vennero messi al corrente. Don Kayman era l’unico personaggio di rilievo che si trovasse fuori dal progetto: lo rintracciarono mentre guardava la televisione nel condominio dei religiosi. Kathleen Doughty salì dalla stanza di fisioterapia, trascinando con sé Brad, tutto umido e con la pelle arrossata: aveva cercato di sostituire con un’ora di sauna una notte di sonno. Freeling era a Merritt Island, ma non c’era molto bisogno di lui; altri cinque o sei entrarono e si lasciarono cadere, depressi o preoccupati, sulle sedie di pelle intorno al tavolo delle conferenze.

Scanyon aveva già ordinato di far decollare l’elicottero da ricerche delle Forze Aeree, per cercare tutto intorno al progetto. Le telecamere dell’apparecchio frugarono la superstrada, le strade d’accesso, i parcheggi, i campi e la prateria, e mostravano ciò che inquadravano sul televisore a muro in fondo alla stanza. La polizia di Tonka era stata messa in allarme, con l’ordine di cercare uno strano essere che sembrava un diavolo e che correva a settanta chilometri orari: e questo aveva messo nei guai il sergente di turno di Tonka. Il sergente commise un grave errore. Chiese all’ufficiale del servizio di sicurezza del progetto se aveva bevuto troppo. Dieci secondi dopo, con la testa piena delle visioni di se stesso mandato a dirigere il traffico a Kiska, il sergente stava impartendo ordini via radio a tutti i veicoli e ai poliziotti a piedi. Gli ordini erano di non arrestare Roger, di non avvicinarlo neppure: si doveva solo trovarlo.

Scanyon voleva un capro espiatorio. — La ritengo responsabile, dottor Ramez! — abbaiò allo psichiatra dello staff. — Lei e il maggiore Carpenter. Come avete potuto permettere che Torraway combinasse una cosa simile senza preavvertirci?

Ramez rispose, accattivante: — Generale, le avevo detto che Roger era instabile, per quanto riguardava la moglie. Ecco perché avevo chiesto qualcuno come Sulie. Roger aveva bisogno di un altro oggetto su cui fissarsi, qualcuno legato direttamente al progetto…