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Il delicato battito sul piano della scrivania era più lento, adesso. Scanyon disse: — È un po’ tardi per dirmi questo.

Sulie alzò le spalle e non rispose.

Scanyon si guardò intorno, pensieroso. — Sta bene. Per stanotte, abbiamo fatto tutto quel che potevamo. Siete tutti in libertà fino alle otto… no, facciamo fino alle dieci di domattina. A quell’ora ognuno di voi dovrà aver preparato un rapporto, non più lungo di tre minuti, per il rispettivo campo di responsabilità, e per proporre ciò che dovremmo fare.

Don Kayman ricevette il messaggio da una macchina della polizia di Tonka: gli piombò alle spalle, con i fari che lampeggiavano e la sirena che urlava, e lo bloccò per ordinargli di tornare indietro e di andare all’appartamento di Roger.

Kayman bussò alla porta con una certa trepidazione, senza sapere cosa avrebbe trovato. E quando la porta si aprì per lasciare apparire gli occhi scintillanti di Roger, Kayman bisbigliò in fretta un’Ave Maria mentre cercava di sbirciare nell’appartamento… per cercare che cosa? Il cadavere smembrato di Dorrie Torraway? Lo sfacelo della devastazione? Ma non vide altro che Dorrie, raggomitolata su una poltrona, piangente. Quella scena quasi lo rallegrò, poiché si era preparato a ben peggio.

Roger lo seguì senza discutere. — Addio, Dorrie, — disse, e non attese una risposta. Faticò a sistemarsi a bordo della piccola auto di Don Kayman, ma le sue ali si ripiegarono. Spingendo indietro al massimo il sedile, riuscì ad accomodarsi, in una posizione precaria e rattrappita che sarebbe stata disperatamente scomoda per qualunque essere umano normale. Ma Roger, naturalmente, non era un essere umano normale. Il suo sistema muscolare accettava sovraccarichi prolungati in quasi tutte le posizioni che poteva assumere.

Tacquero fino a quando arrivarono nelle vicinanze del progetto. Poi Don Kayman si schiarì la gola. — Ci hai spaventati tutti.

— L’immaginavo, — rispose la voce inespressiva del cyborg. Le ali fremettero inquiete, strofinandosi l’una contro l’altra, come in un soffregarsi di mani. — Volevo vederla, Don. Per me era molto importante.

— Posso capirlo. — Kayman entrò nell’ampio parcheggio deserto. — E allora? — sondò. — Va tutto bene?

La maschera del cyborg si girò verso di lui. I grandi occhi compositi scintillavano come ebano sfaccettato, senza espressione, mentre Roger diceva: — Sei matto, padre Kayman. Come può andar bene?

Sulie Carpenter pensava con nostalgia al sonno, come avrebbe pensato a una vacanza sulla Costa Azzurra. Ma l’uno e l’altra, per il momento, erano egualmente impossibili. Prese due compresse di anfetamine e si fece un’iniezione di vitamina B-12 in un punto del braccio che aveva imparato a individuare molto tempo prima.

La simulazione del comportamento di Roger era stata compromessa quando la corrente era venuta meno, perciò dovette ricominciare da cima a fondo. Noi eravamo contenti che fosse così: ci offriva l’occasione di apportare qualche correzione.

Mentre Sulie Carpenter aspettava le risposte, fece un lungo bagno caldo in una vasca da idroterapia, e quando la simulazione fu completata la studiò scrupolosamente. Aveva imparato a leggere le enigmatiche lettere maiuscole ed i numeri per evitare gli errori di programmazione: ma questa volta non dedicò neppure un attimo al hardware e prese subito in esame la risposta finale in chiaro. Era eccezionalmente in gamba, nel suo lavoro.

E non era un’infermiera. Sulie Carpenter era stata una delle prime donne specializzate in medicina aerospaziale. Aveva una laurea in medicina, si era specializzata in psicoterapia, anzi in tutta la miriade di eclettiche discipline psichiatriche, e poi era entrata nel programma spaziale perché le sembrava che sulla Terra non vi fosse nulla cui valesse la pena di dedicarsi. Dopo aver completato l’addestramento astronautico, aveva cominciato a chiedersi se anche nello spazio c’era qualcosa che valesse la pena di fare. La ricerca le era sembrata degna di attenzione, almeno da un punto di vista astratto; aveva fatto domanda per lavorare con le équipe di studio della California ed era stata accettata. Nella sua vita c’era stato un discreto numero di uomini: e uno o due di essi avevano avuto qualche importanza. Ma non era durata con nessuno. Ciò che aveva raccontato a Roger in proposito era quasi tutto vero; e dopo il più recente, bruciante fallimento, aveva ridotto il suo campo d’interessi in attesa di diventare abbastanza adulta per capire cosa voleva da un uomo. Ed era rimasta lì, appartata in un circolo chiuso, lontana dalla grande corrente principale dei sentimenti umani, fino a quando noi estraemmo la sua scheda tra varie centinaia di migliaia, per sopperire alle esigenze di Roger.

Quando le erano arrivati gli ordini, del tutto inaspettatamente, si trattava di ordini impartiti dal presidente in persona. Non aveva avuto la possibilità di rifiutare l’incarico: del resto, non voleva affatto rifiutarlo. Accolse con soddisfazione quel cambiamento. L’idea di fare da chioccia a un essere umano sofferente aveva colpito i centri della sua personalità: l’importanza della missione le appariva evidente, perché se mai credeva in qualcosa, quel qualcosa era il progetto Marte; e sapeva benissimo di essere all’altezza. Era estremamente competente. Noi le attribuivamo una grande importanza: era uno dei pezzi principali del gioco che stavamo giocando per la sopravvivenza della razza.

Quando Sulie Carpenter finì di occuparsi della simulazione di Roger erano quasi le quattro del mattino.

Dormì un paio d’ore su un letto nell’alloggio delle infermiere. Poi fece la doccia, si vestì e mise le lenti a contatto verdi. Non era entusiasta di quel particolare aspetto del suo lavoro, pensò mentre si avviava verso la stanza di Roger. I capelli tinti e il cambiamento del colore degli occhi erano inganni: e a lei non piaceva ingannare. Un giorno le sarebbe piaciuto non mettere le lenti a contatto e lasciare che i suoi capelli tornassero al biondoscuro naturale… oh, magari un po’ migliorati con un cachet, certo: non le dispiaceva ricorrere a qualche artificio, ma non le andava di fingere d’essere ciò che non era.

Ma quando entrò nella stanza di Roger, Sulie sorrideva: — Sono felice che tu sia tornato. Ci sei mancato molto. Che effetto ti ha fatto, andartene in giro tutto solo?

— Niente male, — disse la voce inespressiva. Roger era in piedi accanto alla finestra, e guardava i grumi di tumbleweed che rotolavano e rimbalzavano sullo spiazzo del parcheggio. Si voltò verso di lei. — Sai, è tutto vero, quello che mi avevi detto. Quello che ho adesso non è solo diverso: è migliore.

Sulie resistette alla tentazione di confermare le parole di Roger, e si limitò a sorridere, cominciando a disfare il letto. — Ero preoccupato per il problema sessuale, — continuò lui. — Ma sai una cosa, Sulie? È come se mi avessero detto che per un paio d’anni non potrò mangiar caviale. Il caviale non mi piace. E a ben pensarci, adesso non voglio neanche il sesso. Immagino che sia stata tu a inserire questo particolare nel computer? «Togliere l’impulso sessuale, aumentare l’euforia»? Comunque, nel mio cervello di gallina si è fatta luce finalmente la rivelazione che mi complicavo l’esistenza, chiedendomi come avrei fatto a tirare avanti senza qualcosa che in realtà non volevo neppure. È un riflesso di quello che, secondo me, gli altri pensano che io voglia.

— Acculturazione, — commentò Sulie.

— Senza dubbio, — disse Roger. — Senti, voglio fare qualcosa per te.

Prese la chitarra, si puntellò contro l’intelaiatura della finestra, con un calcagno contro il davanzale, e si piazzò lo strumento sul ginocchio. Le ali si ridisposero silenziosamente sopra la sua testa, mentre cominciava a suonare.

Sulie rimase sbalordita. Roger non si limitava a suonare: cantava, anche. Cantare? No, era un suono come se un uomo fischiettasse tra i denti, un suono debole ma puro. Le dita strimpellavano e pizzicavano un accompagnamento mentre il fischio acuto che gli usciva dalle labbra fluiva nella melodia di un brano che lei non aveva mai udito.