Il nastro si fermò, e la piccola spia rossa che significava «Trasmissione», vicino alla griglia dell’altoparlante, si spense e se ne accese una verde per annunciare «Registrazione». Roger prese il microfono; si preparava a dire che no, non aveva problemi particolari, quando per caso abbassò lo sguardo e si accorse che gli mancava la gamba destra.
Naturalmente, noi sorvegliavamo ogni attimo, a bordo dell’astronave.
Dopo il primo mese, il legame delle comunicazioni si era assottigliato parecchio. La geometria creava difficoltà. Mentre l’astronave volava verso l’orbita di Marte, Marte si muoveva. Si muoveva anche la Terra, e molto più velocemente. Avrebbe compiuto due giri intorno al sole, prima che Marte completasse una sola orbita. I dati telemetrici trasmessi dall’astronave, ormai, impiegavano ben tre minuti prima di arrivare a Goldstone. Noi eravamo ascoltatori passivi. E in futuro sarebbe andata anche peggio. Ogni comando irradiato dalla Terra sarebbe arrivato mezz’ora dopo, quando l’astronave fosse stata in orbita intorno a Marte, andata e ritorno alla velocità della luce. Avevamo rinunciato al controllo istantaneo: l’astronave e i suoi passeggeri erano effettivamente abbandonati a se stessi.
Più tardi ancora, la Terra e Marte si sarebbero venuti a trovare dalle parti opposte del Sole. I deboli segnali provenienti dall’astronave sarebbero stati compromessi dall’interferenza solare, al punto che non avremmo neppure potuto ricevere qualcosa di attendibile. Ma allora sarebbe stato in orbita il 3070, e poco dopo l’avrebbe raggiunto il generatore MHD. Così ci sarebbe stata energia in abbondanza per ogni cosa. Era tutto pianificato: dove sarebbe andato ognuno, come si sarebbero collegati tra loro e con la nave in orbita e con la stazione al suolo e con Roger, dovunque egli se ne andasse.
Lanciammo il 3070, con l’energia ridotta sullo «stand-by». Fu un volo robotizzato. All’analisi, i rischi della ionizzazione risultarono inaccettabili per un’astronave di configurazione normale, perciò gli ingegneri del Cape tolsero tutti gli impianti che rendevano possibile l’esistenza agli esseri umani, tutti gli apparecchi telemetrici, il sistema di demolizione e metà della capacità di manovra. Tutto il peso eliminato venne reintrodotto sotto forma di schermature. Quando venne lanciato, era silenzioso e senza vita, e sarebbe rimasto così per sette mesi. Poi il generale Hesburgh avrebbe preso i comandi e avrebbe manovrato i due veicoli per la manovra del docking. Sarebbe stato difficile, ma lui era pagato per questo.
Lanciammo il generatore MHD un mese dopo, con un equipaggio di due volontari e la massima pubblicità. Ormai se ne interessavano tutti. E nessuno protestò, neppure la Nuova Asia Popolare. Aveva ignorato il primo lancio. Aveva ammesso di aver seguito il lancio del 3070 e aveva offerto i suoi dati alla rete della NASA. Quando partì il generatore, il suo ambasciatore consegnò una cortese nota di congratulazioni.
Era chiaro che stava succedendo qualcosa.
Non era tutto psicologico. New York City passò due settimane senza sommosse, e in alcune delle strade principali venne persino raccolta la spazzatura. Le piogge invernali spensero gli ultimi grandi incendi nel Nord-Ovest, e i governatori degli Stati di Washington, Oregon, Idaho e California lanciarono un appello congiunto per chiedere volontari. Più di centomila giovani si arruolarono per rimboschire le montagne.
Il presidente degli Stati Uniti fu l’ultimo a notare i cambiamenti: era troppo occupato a causa dei disastri interni di una nazione che si era sovrappopolata e aveva speso troppo, precipitando nella tragedia. Ma venne il momento in cui si accorse che il cambiamento c’era stato, non soltanto negli Stati Uniti ma in tutto il mondo; e non era solo un cambiamento di umori, ma anche di tattica. Gli asiatici ritirarono i sommergibili nucleari dalle acque del Pacifico occidentale e dell’oceano Indiano, e quando Dash ricevette la conferma, prese il telefono e chiamò Vern Scanyon.
— Credo… — Si interruppe e allungò la mano per toccare il legno lucido della scrivania. — Credo che funzioni. Dia una pacca sulle spalle ai suoi collaboratori, a nome mio. E adesso, le occorre qualcosa.
Ma non c’era bisogno di nulla.
Ormai eravamo completamente impegnati. Ci eravamo spinti fin dove potevamo, e il resto spettava alla spedizione.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
MISSIONARIO PER MARTE
Don Kayman si concedeva di pregare non più di sei volte al giorno. Pregava per chiedere varie cose — talvolta di non dover più sentire Titus Hesburgh che si succhiava i denti, talvolta di non essere più infastidito dall’odore dei peti che appestavano l’interno della tuta spaziale — ma ogni preghiera comprendeva sempre tre invocazioni: la riuscita della missione, la realizzazione del piano provvidenziale per l’umanità e, in particolare, ogni bene per il suo amico Roger Torraway.
Roger aveva il privilegio di una cabina personale. Non era gran cosa, e l’intimità era assicurata soltanto da una tenda elastica, sottile come un velo e non molto opaca: ma era tutta sua. Gli altri tre si dividevano la cabina dell’equipaggio. Qualche volta la divideva con loro anche Roger: o almeno, la dividevano alcuni pezzi di Roger. Era sparso un po’ dappertutto, Roger.
Kayman andava spesso a dargli un’occhiata. Per lui il viaggio era lungo e noioso. La sua specializzazione, che naturalmente non sarebbe servita a niente fino a quando avessero messo piede sulla superficie di Marte, non richiedeva aggiornamenti né esercizi. L’areologia era una scienza statica, e tale sarebbe rimasta fino a quando egli stesso, come sperava, avesse potuto arricchirla dopo lo sbarco. Perciò aveva lasciato che Titus Hesburgh gli insegnasse a conoscere il quadro degli strumenti, e più tardi aveva lasciato che Brad gli insegnasse un po’ a smontare un cyborg. La forma grottesca che si contorceva lentamente nel bozzolo di gommapiuma non era più estranea. Kayman la conosceva centimetro per centimetro, di dentro e di fuori. Via via che trascorrevano le settimane, egli perse la ripugnanza che l’aveva trattenuto dallo svellere un occhio dall’orbita o dall’aprire un pannello nelle viscere rivestite di plastica.
Non aveva solo questo, da fare. Aveva i nastri di musica da ascoltare, qualche microfiche da leggere, e partite da giocare. A scacchi, lui e Titus Hesburgh più o meno si equivalevano. Giocavano tornei interminabili, al meglio delle 75 partite, e si servivano del tempo loro riservato per le comunicazioni personali, facendosi trasmettere dalla Terra testi sugli scacchi. Padre Kayman avrebbe trovato una maggiore serenità se avesse pregato di più, ma dopo la prima settimana aveva pensato che si poteva esagerare anche con le preghiere. Quindi le razionò: al risveglio, prima dei pasti, a metà serata, e poi prima di addormentarsi. E questo era tutto. Naturalmente, non erano inclusi in questa serie la rapida elevazione ottenuta recitando un Paternoster o il rosario di Sua Santità. Poi, Kayman ritornava all’interminabile lavoro di risistemazione di Roger. Si sentiva quasi sempre lo stomaco sconvolto, ma era chiaro che Roger era ignaro di quelle invasioni della sua persona e non ne soffriva. Poco a poco, Kayman imparò ad apprezzare la bellezza dell’anatomia interna del cyborg: sia quella parte che era opera dell’Uomo, sia quella che era opera di Dio. Ed egli rendeva grazie per entrambe.
Ma non se la sentiva di rendere grazie per ciò che Dio e l’uomo avevano fatto alla mente di Roger. Lo turbava il pensiero che alla vita del suo amico venissero rubati sette mesi; e lo impietosiva il fatto che l’amore di Roger andasse ad una donna che lo teneva in scarsissimo conto.
Ma tutto considerato, Kayman era felice.
Non aveva mai partecipato a una missione su Marte: tuttavia quello era il suo posto. Era stato altre due volte nello spazio: una corsa con una navetta fino a una stazione orbitale, quando era ancora uno studente laureato che aspirava a un dottorato in planetologia; e poi un giro di novanta giorni a bordo della Stazione Spaziale Betty. L’una e l’altra esperienza erano state soltanto esercitazioni in vista della missione che avrebbe completato il suo studio su Marte.