Tutto ciò che egli sapeva di Marte lo aveva appreso per mezzo di un telescopio o per deduzione o in base alle osservazioni altrui. Le conosceva molto bene. Aveva esaminato e riesaminato più volte ì nastri sinottici di tutti gli Orbiter, i Mariner e i Surveyor. Aveva analizzato i campioni di suolo e di roccia portati sulla Terra. Aveva interrogato tutti gli americani, i francesi e gli inglesi che erano scesi su Marte, e anche molti dei russi, giapponesi e cinesi.
Sapeva tutto di Marte. Aveva sempre saputo tutto.
Da bambino era cresciuto sul pianeta Marte di Edgar Rice Burroughs, il colorito Barsoom dai fondi oceanici morti e color ocra e dalle minuscole lune velocissime. Crescendo, aveva imparato a distinguere la realtà dalla finzione. Non c’era niente di reale nei guerrieri verdi a quattro braccia e nelle bellissime principesse marziane che avevano la pelle rossa e deponevano uova… almeno nella misura in cui la scienza era in contatto con la «realtà». Ma egli sapeva che l’opinione degli scienziati sulla «realtà» cambiavano da un anno all’altro. Burroughs non aveva tratto Barsoom esclusivamente dalla propria immaginazione. L’aveva tratto, quasi parola per parola, dalla «realtà» scientifica più autorevole dei suoi tempi. Era il Marte di Percival Lowell, non quello di Burroughs, che era stato smentito dai telescopi più grandi e dalle sonde spaziali. Nella «realtà» dell’opinione scientifica, la vita su Marte era nata e morta una dozzina di volte.
Ma anche tale questione non era mai stata veramente risolta. Dipendeva da un problema filosofico. Che cos’era la «vita»? Indicava necessariamente un essere simile a una scimmia o a una quercia? Indicava per forza di cose un essere che scioglieva le sue sostanze nutrienti in una biologia basata sull’acqua, partecipava al ciclo del trasferimento di energia per ossidazione e riduzione, si riproduceva e perciò cresceva dall’ambiente? Don Kayman non la pensava così. Giudicava presuntuoso limitare la «vita» in modo tanto campanilistico, e si sentiva molto umile di fronte alla maestà onnipotente del Creatore.
Comunque, la questione di una vita geneticamente affine a quella terrestre era ancora aperta. O almeno, non del tutto chiusa. Certo, non si erano trovate né scimmie né querce. Neppure un lichene. Neppure una cellula vivente. E neppure (era costretto a confessarlo con rammarico, perché Dejah Thoris non voleva saperne di morire, dentro al suo cuore) i prerequisiti indispensabili come l’ossigeno libero e l’acqua.
Ma Kayman non ammetteva che, siccome nessuno era scivolato su una distesa di muschi marziani, questi non esistessero in nessuna parte del pianeta. Su Marte avevano posto piede meno di cento esseri umani. Sommata insieme, l’area delle loro esplorazioni non superava alcune centinaia di miglia quadrate. Su Marte, dove non esistevano oceani, e la superficie della terraferma da esplorare era quindi maggiore di quella della Terra! Era un po’ come pretendere di conoscere la Terra compiendo quattro rapidi viaggi nel Sahara, sulle cime dell’Himalaia, nell’Antartide e sulla calotta polare della Groenlandia…
Beh, no, ammise Kayman. Non era esatto. Vi erano stati gli innumerevoli sorvoli, e le sonde messe in orbita, e i veicoli spaziali che si erano posati sulla superficie per prelevare campioni del suolo.
Tuttavia, il principio era valido. Marte era troppo grande. Nessuno poteva sostenere che non serbasse qualche segreto. Si poteva ancora trovare acqua. Alcuni dei grandi crepacci apparivano promettenti. Alcune valli avevano forme che difficilmente si potevano capire, se non si era disposti ad ammettere che fossero state scavate da fiumi. Anche se adesso erano asciutte, poteva ancora esservi acqua, immensi oceani d’acqua prigionieri sotto la superficie. Si sapeva che l’ossigeno era presente. Non molto, in media, ma le medie non erano importanti. Localmente poteva essercene in abbondanza. E quindi poteva esserci…
La vita.
Kayman sospirò. Uno dei suoi rimpianti più grandi era di non essere riuscito a far cambiare la scelta del punto di atterraggio in uno dei luoghi che, personalmente, considerava più adatti ad ospitare la vita, l’area del Solis Lacus. La decisione gli era stata sfavorevole. Era stata presa da un’altissima autorità… infatti, era stato Dash in persona a dichiarare: — Non me ne importa un cavolo di sapere dove può esserci qualcosa di vivo, adesso. Io voglio che il modulo scenda dove sia più facile che resti in vita il nostro ragazzo.
Perciò avevano scelto una località nei pressi dell’equatore, e nell’emisfero settentrionale: i rilievi principali si chiamavano Isidius Regio e Nepenthes, e alla loro intersezione c’era un cratere che Don Kayman aveva segretamente battezzato Casa.
Altrettanto segretamente, egli rimpiangeva la perdita del Solis Lacus e della sua forma che mutava con le stagioni (piante che crescevano? Probabilmente no… ma si poteva sempre sperare!), la fulgida nuvola a forma di W intorno ai canali Ulysses e Fortunae, che si era formata e riformata ogni pomeriggio durante una lunga congiunzione, il lampo brillantissimo (il riflesso della luce solare? un’esplosione all’idrogeno?) che Saheki aveva visto nel Tithonius Lacus il 1° dicembre 1951, luminoso come una stella di sesta grandezza. Qualcun altro avrebbe dovuto indagare su tutto ciò: lui non lo avrebbe fatto.
Ma a parte questi rimpianti, Kayman era abbastanza contento. L’emisfero settentrionale rappresentava una scelta opportuna. Le stagioni erano meglio equilibrate perché, come sulla Terra, nell’emisfero settentrionale c’era l’inverno quand’era più vicino al sole, e perciò rimaneva un poco più caldo durante tutto l’anno. Là l’inverno era di venti giorni più breve dell’estate; nell’emisfero meridionale, ovviamente, avveniva il contrario. E sebbene nessuno avesse mai osservato che Casa cambiasse forma o emettesse lampi luminosi, in realtà vi era stato riconosciuto un buon numero di recenti formazioni nuvolose. Kayman non aveva rinunciato alla speranza che alcune di quelle nubi fossero formate di ghiaccio, se non d’acqua! Immaginò con la fantasia temporali torrenziali sulla pianura marziana, e poi pensò più sobriamente alle grandi distese di limonite che erano state identificate nei pressi. La limonite conteneva abbondanti quantitativi d’acqua: sarebbe stata una risorsa per Roger, anche se su Marte non si erano mai evoluti animali o piante capaci di sfruttarla.
Nel complesso, era soddisfatto di tutto.
Era in viaggio per Marte! Era un motivo di grande gioia per lui, e di questo rendeva grazie a Dio sei volte al giorno. E poi, aveva una speranza.
Don Kayman era troppo scienziato per confondere le proprie speranze con le osservazioni. Avrebbe riferito quel che avrebbe scoperto. Ma sapeva cosa voleva trovare. Voleva trovare la vita.
Nella misura consentita dagli scopi della missione, nei novantun giorni marziani in cui sarebbe rimasto sulla superficie del pianeta, avrebbe tenuto gli occhi aperti. Tutti sapevano che l’avrebbe fatto. Anzi, questo faceva parte delle istruzioni contingenti che aveva ricevuto circa l’attività che avrebbe potuto svolgere, tempo permettendo.
Quello che non tutti sapevano era il motivo dell’interesse di Kayman.
Dejah Thoris, per lui, non era completamente morta. Egli sperava ancora che vi fosse la vita: addirittura vita intelligente. E non solo forme di vita intelligenti, ma anche con anime da salvare e da condurre al suo Dio.
Tutto ciò che accadeva a bordo della nave spaziale era sotto continua sorveglianza, e le trasmissioni sinottiche si svolgevano regolarmente. Perciò noi li tenevamo d’occhio. Assistevamo alle partite a scacchi e alle discussioni. Controllavamo le modifiche apportate da Brad alle funzioni del corpo di Roger, carne e metallo. Vedemmo la notte in cui Titus Hesburgh pianse per cinque ore, dolcemente, sognante, respingendo con un sorriso tra le lacrime tutti i tentativi di conforto di Kayman. In un certo senso, Hesburgh aveva il compito più ingrato: sette mesi all’andata, sette mesi al ritorno e tra l’una e l’altro, tre mesi di niente. Sarebbe rimasto completamente solo in orbita mentre Kayman, Brad e Roger se la sarebbero spassata sulla superficie. Sarebbe rimasto solo, e si sarebbe annoiato.