E gli sarebbe toccato anche di peggio. Diciassette mesi trascorsi nello spazio, in pratica, assicuravano che negli ultimi decenni della sua vita egli sarebbe stato tormentato da cento diversi disturbi muscolari, ossei e circolatorii. Tutti si tenevano diligentemente in esercizio, facendo la lotta tra loro e azzuffandosi con le molle, agitando le braccia e muovendo le gambe: ma non sarebbe bastato. Inevitabilmente c’era riassorbimento di calcio dalle ossa, e perdita del tono muscolare. Per coloro che sarebbero atterrati, i tre mesi trascorsi su Marte avrebbero comportato una grande differenza. In quel periodo avrebbero posto rimedio a gran parte dei danni, e sarebbero stati in condizioni migliori per affrontare il ritorno. Per Hesburgh quella fase non ci sarebbe stata. Per lui i diciassette mesi a gravità zero sarebbero stati ininterrotti, e l’esperienza degli astronauti che l’avevano preceduto prospettava chiaramente le conseguenze: la durata della sua vita sarebbe stata abbreviata di un decennio o più. E se Titus Hesburgh ogni tanto piangeva, nessuno ne aveva più diritto di lui.
Il tempo passava, il tempo passava. Un mese, due mesi, sei mesi. Dietro di loro, nei cieli, la capsula con il 3070 saliva e saliva, seguendoli; ancora più indietro, veniva la centrale elettrica magnetoídrodinamica, con il suo equipaggio di due persone. Quando mancavano due settimane all’arrivo, cambiarono cerimoniosamente gli orologi, mettendo i nuovi a quarzo che misuravano il giorno marziano. Da quel momento, vissero secondo l’orologio marziano. Dal punto di vista pratico, la differenza era poca: il giorno di Marte è circa trentasette minuti più lungo di quello terrestre. Ma la differenza era significativa psicologicamente.
Una settimana prima dell’arrivo, cominciarono ad accelerare Roger.
Per Roger, quei sette mesi erano stati come trenta ore di tempo soggettivo. Era stato comunque abbastanza lungo. Aveva mangiato qualche pasto, aveva scambiato alcune dozzine di comunicazioni con il resto dell’equipaggio. Aveva chiesto la sua chitarra; ma gliel’avevano rifiutata perché non poteva suonarla. L’aveva voluta comunque, per curiosità, e aveva scoperto che era vero: poteva pizzicare una corda, ma non udire la nota risultante. Infatti, a parte i nastri appositamente rallentati, quasi sempre non riusciva ad udire nulla: soltanto una sorta di suono acuto, frusciante. L’aria non trasmetteva il tipo di vibrazioni che egli poteva percepire. Quando il registratore non era a contatto con la struttura metallica cui era legato, Roger non poteva udire neppure quello, e la sua voce non veniva registrata.
Lo avvertirono che stavano cominciando ad accelerare le sue percezioni. Lasciarono aperta la tenda del suo cubicolo, ed egli cominciò a notare guizzi rapidissimi. Intrawide Hesburgh che sonnecchiava lì vicino, poi vide delle figure che effettivamente si muovevano; dopo un po’ le riconobbe persino. Poi lo addormentarono, per effettuare gli adattamenti definitivi del computer a zaino, e quando Roger si svegliò era solo, la tenda era chiusa… E udì delle voci.
Scostò la tenda e guardò fuori, e a salutarlo c’era la faccia sorridente dell’amante di sua moglie: — Buongiorno, Roger! Lieto di riaverti con noi.
… E diciotto minuti dopo, dodici per la trasmissione del messaggio attraverso lo spazio e il resto per la decifrazione e il collegamento, il presidente assistette alla scena, a più di centosessanta milioni di chilometri di distanza, sullo schermo, nella Sala Ovale.
Non era l’unico a vederla. Le reti televisive mandarono in onda la scena, e i satelliti la ritrasmisero in tutto il mondo. La videro nel Palazzo di Pechino, e al Cremlino; a Downing Street e all’Eliseo e a Ginza.
— Figlio di puttana, — fu la frase storica di Dash. — Ce l’hanno fatta.
Vern Scanyon era con lui. — Figlio di puttana, — gli fece eco. Poi disse: — Beh, quasi fatta. Devono ancora atterrare.
— C’è qualche problema per questo?
Cautamente: — No, a quanto mi risulta…
— Dio, — affermò sicuro il presidente, — non può essere così ingiusto. Adesso io e lei faremmo bene a berci un goccetto di bourbon; era ora.
Rimasero ad assistere alla trasmissione per mezz’ora, e per un quarto di bottiglia. Di tanto in tanto, nei giorni seguenti, videro dell’altro, loro ed il resto del mondo. Il mondo intero vide Hesburgh effettuare i controlli finali e preparare il modulo marziano per lo sganciamento. Videro Don Kayman collaudare le manovre sotto l’osservazione meticolosa del pilota, poiché sarebbe stato ai comandi per la discesa, una volta lasciata l’orbita. Videro Brad effettuare un ultimo riesame della telemetria di Roger, riscontrare che tutto funzionava per il meglio, e poi ripetere tutto il controllo ancora una volta. Videro Roger aggirarsi nella cabina dell’equipaggio e infilarsi nel modulo.
E videro il modulo sganciarsi ed Hesburgh guardare malinconicamente il bagliore che cominciava a scendere dall’orbita.
Calcolammo che tre miliardi e mezzo di persone assistettero all’atterraggio. Non c’era molto da vedere: se avete visto un atterraggio li avete visti tutti. Ma questo era importante.
Cominciò alle quattro meno un quarto del mattino, fuso orario di Washington; e il presidente si era fatto svegliare apposta. — Quel prete, — disse, accigliandosi, — che razza di pilota è? Se va male qualcosa…
— Ha seguito i corsi, signore, — lo tranquillizzò il suo aiutante per la NASA. — Comunque, in realtà è solo una sorta di riserva. È la sequenza automatica ad avere il comando primario. Se qualcosa non va, il generale Hesburgh segue tutto dall’astronave in orbita e può intervenire prendendo i telecomandi. Padre Kayman non deve fare niente, a meno che tutto vada male contemporaneamente.
Dash scrollò le spalle, e l’aiutante notò che il presidente teneva le dita incrociate in atto di scongiuro. — E i voli successivi? — chiese, fissando lo schermo.
— Nessuna preoccupazione, signore. Il computer si inserirà nell’orbita marziana fra trentadue giorni, e il generatore ventisette giorni più tardi. Non appena il modulo toccherà la superficie, il generale Hesburgh effettuerà una correzione di rotta e supererà la luna Deimos. Contiamo di far scendere il computer e il generatore, probabilmente nel cratere Voltaire: Hesburgh deciderà per noi.
— Uhm, — fece il presidente. — Hanno detto a Roger chi c’è a bordo dell’astronave del generatore?
— No, signore.
— Uhm. — Il presidente abbandonò il teleschermo e si alzò. Andò alla finestra e, guardando il bel prato della Casa Bianca, verdeggiante e fiorito nel mese di giugno, disse: — C’è un tale che arriva dal centro computer di Alexandria. Vorrei che lei fosse presente, quando verrà qui.
— Sì, signore.
— Il comandante Chiaroso. Dovrebbe sapere il fatto suo. Era professore al M.I.T. Dice che c’è qualcosa di strano nelle nostre proiezioni sull’intero progetto. Lei ha sentito dire qualcosa in proposito?
— No, signore, — disse l’aiutante per la NASA, allarmato. — Strano, signore?
Dash alzò le spalle. — Non mi mancherebbe altro che questo, — disse, — mettere in piedi questa maledetta faccenda e poi scoprire… Ehi! cosa diavolo succede?
Sul teleschermo l’immagine sobbalzò e si spezzò; sparì completamente, si ricostituì e tornò a sparire, lasciando soltanto le tracce delle righe.
— Niente di grave, signore, — si affrettò a tranquillizzarlo l’aiutante. — È l’impatto del rientro. Quando penetrano nell’atmosfera perdono il contatto video. Anche la telemetria ne risente, ma hanno un ampio margine: è tutto regolare.