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Il presidente domandò: — Ma perché diavolo succede? Credevo che metà dei problemi derivassero dal fatto che Marte non ha atmosfera!

— Non ne ha molta, signore. Ma un po’ sì, e poiché è più piccolo ha anche una gravità inferiore. L’atmosfera superiore è densa all’incirca quanto quella della Terra alla stessa altitudine, ed è lì che si verifica l’impatto.

— Stramaledizione! — ringhiò il presidente. — Queste sorprese non mi piacciono! Perché qualcuno non mi aveva avvertito?

— Ecco, signore…

— Lasci perdere! Ne riparleremo più tardi. Spero che fare la sorpresa a Torraway non sia un errore… Beh, non pensiamoci più. Adesso cosa succede?

L’aiutante non guardava lo schermo, bensì il proprio orologio. — Apertura del paracadute, signore. Hanno completato l’accensione dei retrorazzi. Adesso si tratta solo di scendere. Tra pochi secondi… — L’aiutante indicò lo schermo che, obbediente, formò di nuovo un’immagine. — Ecco. Adesso sono in fase di discesa controllata.

Sedettero e attesero, mentre il modulo scendeva nella sottile atmosfera marziana, sotto l’immenso baldacchino, cinque volte più grande di un paracadute costruito per l’aria terrestre.

Quando toccò la superficie, il suono giunse da centosessanta milioni di chilometri, e sembrò quello di alcuni bidoni della spazzatura che cadessero da un tetto. Ma il modulo era stato costruito apposta; e i membri dell’equipaggio erano già da un pezzo chiusi nei loro bozzoli protettivi.

Dallo schermo uscì un sibilo e il cigolio del metallo che si raffreddava.

E poi la voce di Brad. — Siamo su Marte, — disse in tono di preghiera. E padre Kayman cominciò a mormorare le parole tratte dall’ordinale della Messa: — Laudamus te, benedicimus te, adoramus te, glorificamus te. Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis.

E a queste parole abituali aggiunse: — Et in Marte.

CAPITOLO QUINDICESIMO

COME LA BUONA NOVELLA GIUNSE DA MARTE ALLA TERRA

Appena ci rendemmo conto del grave rischio che una grande guerra distruggesse la civiltà e rendesse inabitabile la Terra — cioè, poco dopo che collettivamente cominciammo a renderci conto di qualcosa — decidemmo di prendere provvedimenti per colonizzare Marte.

Non era facile, per noi.

L’intera razza umana era nei guai. L’energia scarseggiava in tutto il mondo, e questo significava che i fertilizzanti costavano cari, che la gente soffriva la fame, e che si creavano tensioni pericolosamente esplosive. Le risorse mondiali bastavano appena a tenere in vita miliardi di persone. Dovevamo trovare qualche mezzo per stornare delle disponibilità disperatamente necessarie altrove, per preparare piani a lungo termine. Organizzammo tre gruppi distinti con il compito di pensare alle soluzioni e assicurammo loro tutti i mezzi che potevamo sottrarre alle esigenze quotidiane. Uno dei gruppi esplorava le possibilità di risolvere le tensioni sempre crescenti sulla Terra. Uno era incaricato di preparare rifugi sulla Terra stessa, in modo che, anche se fosse scoppiata una guerra termonucleare, una piccola percentuale della nostra razza potesse sopravvivere.

Il terzo esaminava le possibilità extraterrestri.

All’inizio sembrava che avessimo mille possibilità tra cui scegliere: ed ognuna delle tre piste principali presentava ramificazioni che parevano promettenti. Una ad una le piste si chiusero. Le nostre stime più esatte — non quelle che passavamo al presidente degli Stati Uniti, ma quelle private che non mostravamo a nessuno, e tenevamo per noi — erano di zero virgola nove e dieci nove probabilità di una guerra termonucleare entro un decennio; e il primo anno chiudemmo il centro per la soluzione delle tensioni internazionali. Creare rifugi sembrava un po’ più semplice. Risultò, dalle analisi più pessimistiche, che alcuni luoghi della Terra difficilmente avrebbero subìto un attacco diretto: l’Antartide, parti del Sahara, persino tratti dell’Australia e un buon numero di isole. Vennero scelte dieci località. Ognuna aveva zero virgola una probabilità, o anche meno, di venire distrutta; tenendo conto di tutte e dieci, le probabilità che venissero distrutte tutte quante erano relativamente insignificanti. Ma un’analisi più attenta mostrò che vi erano due lacune. Innanzi tutto, non potevamo sapere che quantità di isotopi a lungo periodo di dimezzamento sarebbe rimasta nell’atmosfera dopo una guerra del genere, e secondo le indicazioni vi sarebbero stati livelli eccessivi di radiazioni ionizzanti almeno per mille anni. Su di una simile scala temporale, la probabilità che almeno uno dei rifugi sopravvivesse diventava di gran lunga inferiore a zero virgola cinque. Peggio ancora, c’era la necessità dell’investimento dei capitali. Costruire i rifugi sotterranei e riempirli dell’immensa quantità necessaria di complesse attrezzature elettroniche, generatori, riserve di carburante e così via, era in pratica impossibile. Non avevamo modo di procurarci il danaro.

Perciò chiudemmo anche quel centro e dedicammo tutte le risorse di cui potevamo disporre alla colonizzazione extraterrestre. All’inizio, era parsa la soluzione meno promettente.

Ma — quasi! — eravamo riusciti a renderla operante. Quando Roger Torraway toccò il suolo marziano, si completò la prima fase, la più difficile. Quando i veicoli spaziali che lo seguivano avessero raggiunto le rispettive posizioni, in orbita o sulla superficie del pianeta, noi avremmo potuto, per la prima volta, fare i piani per il futuro, dato che ormai la sopravvivenza della razza era assicurata.

Perciò osservammo con grande soddisfazione, mentre Roger uscì sulla superficie del pianeta.

Il computer portatile di Roger era un trionfo dell’ingegneria. Aveva tre sistemi separati, collegati e dotati di risorse comuni, ma con una ridondanza sufficiente, in modo che tutti i sistemi avevano un’attendibilità di almeno zero virgola nove, fino a quando il computer d’appoggio, il 3070, fosse arrivato in orbita. Un sistema mediava le percezioni di Roger. Un altro controllava i subsistemi dei nervi e dei muscoli che gli consentivano di camminare e di muoversi. Il terzo provvedeva alla telemetria di tutti i suoi input. Qualunque cosa lui vedesse, la vedevamo anche noi sulla Terra.

Avevamo dovuto lavorare parecchio per organizzare tutto questo. Secondo la Legge di Shannon non c’era un’ampiezza di banda sufficiente per trasmettere tutto, ma noi avevamo incluso un elemento per la campionatura randomizzata. Veniva trasmesso approssimativamente un bit su cento… prima alla radio del modulo, dove avevamo assegnato permanentemente un canale a quella funzione. Poi veniva ritrasmesso sull’astronave in orbita, dove il generale Hesburgh fluttuava, e guardava la televisione mentre il calcio gli usciva dalle ossa. Da lì, ripulito e amplificato, veniva trasmesso a quel satellite sincrono della Terra che in quel momento si trovava collegato con Marte e Goldstone. Perciò, tutto quello che vedevamo era «reale» solo all’uno per cento. Ma era abbastanza. Il resto veniva integrato per mezzo di un programma di comparazione che avevamo preparato per il ricevitore di Goldstone. Hesburgh vedeva solo una serie di fotogrammi fissi: sulla Terra noi trasmettevamo ciò che sembrava esattamente una ripresa diretta di tutto ciò che Roger vedeva.

Perciò, su tutta la Terra, sui teleschermi di ogni paese, la gente guardò le montagne beige e brune alte sedicimila metri, vide il brillio del sole marziano sui finestrini del modulo, poté addirittura leggere l’espressione di padre Kayman quando si alzò dalla sua preghiera e per la prima volta guardò Marte.

Nel Palazzo di Pechino, i dirigenti della Nuova Asia Popolare interruppero un’importante seduta per guardare il teleschermo. I loro sentimenti erano contrastanti. Quello era il trionfo dell’America, non il loro. Nella Sala Ovale, la gioia del presidente Deshatine era allo stato puro. Il trionfo non era soltanto americano, era suo personale: era identificato, per sempre, come il presidente che aveva reso possibile la colonizzazione umana di Marte. Quasi tutti coloro che assistevano alla trasmissione erano felici… persino Dorrie Torraway, che era nel suo studio, nel retro del negozio, con il mento appoggiato alle mani, e studiava il messaggio degli occhi di suo marito. E naturalmente, nel gran cubo bianco del progetto, alla periferia di Tonka, Oklahoma, quelli dello staff che erano ancora lì guardavano quasi in continuazione le immagini provenienti da Marte.