Ne avevano tutto il tempo. Non avevano molto da fare. Sorprendentemente, l’edificio era sembrato vuoto, da quando Roger se ne era andato.
Erano stati tutti ricompensati, dai magazzinieri in su: un elogio personale per ciascuno da parte del presidente, più una vacanza-premio di trenta giorni e un avanzamento di carriera. Clara Bly approfittò della vacanza per finire la luna di miele rinviata per tanto tempo. Weidner e Freeling trovarono il tempo di redigere un abbozzo del saggio di Brad, trasmettendogliene ogni paragrafo via via che usciva dalle macchine da scrivere, e ricevendo le sue correzioni via Goldstone. Vern Scanyon, naturalmente, fece un giro trionfale insieme al presidente, nei cinquantaquattro stati e nelle città principali di venti paesi stranieri. Brenda Hartnett era apparsa due volte alla televisione, insieme ai figli: erano stati sepolti sotto montagne di doni. La vedova dell’uomo che era morto per mandare Roger Torraway su Marte era ormai milionaria. Avevano avuto tutti la loro ora di gloria, non appena l’astronave era partita e Roger si era messo in rotta, specialmente in quei momenti immediatamente precedenti l’atterraggío.
Poi il mondo guardò Marte con gli occhi di Roger, e con i sensi del fratello fissato sul dorso di Roger, e tutta la loro fama si dileguò. Da quel momento ci fu soltanto Roger.
Anche noi osservavamo.
Vedemmo Brad e Don Kayman, chiusi nelle tute, mentre completavano le procedure prima di uscire. Roger non aveva bisogno di una tuta. Era in punta di piedi sul portello del modulo, librato, e fiutava il vento vuoto; le grandi ali nere sollevate dietro di lui assorbivano i raggi del sole, di una piccolezza ma anche di uno splendore sconcertanti. Per mezzo del pick-up televisivo all’interno del modulo vedemmo Roger profilato contro il beige e il bruno del tagliente orizzonte marziano…
E poi attraverso gli occhi di Roger vedemmo ciò che egli vedeva. Per Roger, che guardava i fulgidi colori gemmei del pianeta su cui doveva vivere, era una terra incantata, bellissima e invitante.
Il modulo aveva abbassato la scaletta al magnesio fino a sfiorare la superficie marziana, ma Roger non ne aveva bisogno. Balzò giù, con le ali svolazzanti — per tenersi in equilibrio, non per sollevarsi — e si posò con leggerezza sulla gessosa superficie arancione, dove il soffio dei retrorazzi aveva spazzato via la crosta. Rimase lì per un momento, scrutando il suo regno con i grandi occhi sfaccettati. — Non essere precipitoso, — consigliò dentro la sua testa una voce che proveniva dalla radio della tuta di Don Kayman. — Meglio seguire l’elenco degli esercizi.
Roger sogghignò, senza guardarsi intorno. — Sicuro, — disse, e cominciò ad allontanarsi. Dapprima camminò, poi trotterellò; poi cominciò a correre. Se per le vie di Tonka aveva corso, qui era un fulmine. Rise, sonoramente. Cambiò le reazioni di frequenza degli occhi, e le lontane montagne torreggianti lampeggiarono di un azzurro vivo, mentre la piatta pianura era un mosaico di verdi, di gialli e di rossi. — È magnifico! — bisbigliò, ed i ricevitori del modulo raccolsero le parole appena formate e le trasmisero alla Terra.
— Roger, — disse Brad, in tono petulante, — vorrei che andassi con calma fino a quando avremo pronta la jeep.
Roger si voltò. Gli altri due erano davanti alla scala del modulo, e riassestavano la jeep marziana, ripiegata dietro il portello.
Balzò verso di loro, gioiosamente. — Serve aiuto?
Era superfluo che rispondessero. Avevano davvero bisogno di aiuto: con le tute addosso era un’impresa massacrante sfilare ad una ad una le cinghie di bloccaggio dalle ruote a canestro. — Spostatevi, — disse Roger: rapidamente liberò le ruote e stese le lunghe gambe a trampolo in posizione d’attesa. La jeep aveva ruote per muoversi sul terreno pianeggiante, e zampe per le scalate. Sarebbe dovuto essere il veicolo più flessibile che l’uomo poteva costruire per circolare su Marte, ma non lo era. Lo era Roger, invece. Quando ebbe finito sfiorò i due compagni e promise: — Non mi allontanerò dalla linea della visuale. — E poi se ne andò per andare a osservare le chiazze di colore intorno ad una serie di piccoli dossi, luminose come un quadro di Dalí e irresistibili.
— È pericoloso! — borbottò Brad, via radio. — Aspetta che abbiamo finito di provare la jeep! Se ti capita qualcosa, noi siamo nei guai.
— Non mi capiterà niente, — disse Roger. — E no! — Non poteva aspettare. Adoperava il proprio corpo per lo scopo per cui era stato costruito, e la pazienza era svanita. Corse. Saltò. Si trovò a due chilometri dal modulo prima di rendersene conto; si voltò indietro, vide che gli altri lo seguivano lentamente e proseguì. Il suo apparato d’ossigenazione elevò il ritmo di pompaggio per compensare le maggiori esigenze; i muscoli risposero perfettamente. Non erano muscoli suoi, quelli che lo facevano muovere, bensì i servosistemi che li avevano sostituiti: ma erano le minuscole fibre muscolari alle estremità dei nervi che facevano muovere quei servosistemi. Tutti i lunghi esercizi diedero buoni frutti. Per lui, non era affatto faticoso raggiungere i duecento chilometri orari, scavalcare a balzi piccoli crepacci e crateri, saltare su e giù lungo i pendii di quelli più grandi.
— Torna indietro, Roger! — Era Don Kayman, e aveva un tono preoccupato.
Una pausa, mentre Roger proseguiva la corsa; poi la sua vista percepì un senso vertiginoso di movimento, e un’altra voce disse: — Torna indietro, Roger! È ora.
Roger si fermò di colpo, sdrucciolò, sbatté le ali nell’aria quasi impercettibile, per poco non cadde, e recuperò l’equilibrio. La voce ben nota ridacchiò: — Vieni, tesoro! Adesso fai il bravo ragazzo e torna indietro.
La voce di Dorrie.
E nel sottile, lontano vortice di sabbia í colori si concentrarono nella figura di Dorrie, sorridente, a meno di dieci metri da lui, le gambe lunghe che scomparivano nei calzoncini, un corpicino colorato, i capelli agitati dalla brezza.
La voce della radio rise, questa volta con i toni di Don Kayman. — Ti abbiamo fatto una sorpresa, eh?
Roger impiegò un momento per rispondere. — Già, — riuscì a dire.
— È stata un’idea di Brad. Abbiamo registrato l’immagine di Dorrie sulla Terra. Quando avrai bisogno di un segnale d’emergenza, sarà lei a dartelo.
— Già, — disse ancora Roger. Davanti ai suoi occhi, la figura sorridente divenne indistinta, i colori sbiadirono, scomparvero.
Roger si voltò e tornò indietro. Il percorso di ritorno richiese molto più tempo della gioiosa corsa sfrenata dell’andata, e i colori non erano più tanto splendidi.
Don Kayman guidava la jeep verso la figura avanzante di Roger Torraway, cercando di abituarsi a rimanere sul seggiolino senza venir sbatacchiato avanti e indietro dalle cinture di sicurezza. Era molto scomodo. La tuta, che era stata confezionata su misura, gli era divenuta stretta in certi punti e larga in certi altri, in quei lunghi mesi trascorsi dalla partenza dalla Terra: o forse, ammise sinceramente, era lui ad essere un po’ ingrassato qui e dimagrito là… non era stato molto diligente, ammise, nell’eseguire i prescritti esercizi ginnici. E poi, doveva andare al bagno. C’erano le tubature apposite, nella tuta. Sapeva come servirsene, ma non voleva.