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E al disagio si assommava un senso d’invidia e di preoccupazione. L’invidia era un peccato di cui poteva purificarsi, non appena avesse trovato qualcuno che ascoltasse la sua confessione… al massimo era un peccato veniale, pensò, tenendo conto dei vantaggi evidenti che Roger aveva rispetto a loro due. La preoccupazione era un peccato più grave, non nei confronti di Dio ma nei confronti del successo della missione. Era troppo tardi per preoccuparsi. Forse era stato un errore usare il simulacro della moglie di Roger per comunicare messaggi urgenti… a quel tempo, egli non sapeva ancora quant’erano complicati i sentimenti di Roger per Dorrie. Ma ormai era troppo tardi per rimediare.

Brad non sembrava affatto preoccupato. Ridacchiava felice delle prestazioni di Roger. — Hai notato? — chiese. — Non è caduto neppure una volta! La coordinazione è perfetta. L’abbinamento normativo, tra apparato biologico e servosistemi. Ti assicuro, Don, ci siamo riusciti!

— È un po’ presto per dirlo, — obiettò impacciato Kayman, ma Brad proseguì. Il prete pensò di spegnere l’audio del casco, ma era quasi altrettanto facile bloccare la propria attenzione. Si guardò intorno. Erano atterrati nei pressi del limite dell’alba, ma avevano impiegato più della metà del giorno marziano ad effettuare i controlli precedenti l’uscita e a montare la jeep. Ormai era pomeriggio inoltrato. Dovevano ritornare prima che venisse l’oscurità, si disse. Roger sarebbe stato in grado di muoversi alla luce delle stelle, ma per lui e per Brad sarebbe stato più rischioso. Forse un’altra volta, quando avessero acquisito una maggiore esperienza… Teneva davvero moltissimo a passeggiare sulla superficie d’ebano, in una notte barsoomiana, con le stelle che sembravano puntolini di fuoco colorato in un cielo di velluto nero. Ma non ora.

Si trovavano su di una grande pianura piena di crateri. A prima vista, era difficile stimarne la grandezza. Guardandosi intorno attraverso il visore, Kayman faticava a ricordare quant’erano lontane le montagne. La sua mente lo sapeva, poiché egli conosceva ogni riquadro delle mappe marziane per duecento chilometri di raggio a partire dal punto dell’atterraggio. Ma i suoi sensi erano ingannati dalla visibilità assoluta, trasparente. Le montagne a occidente, lo sapeva, erano distanti cento chilometri, e alte quasi dieci. E sembravano collinette vicine.

Mosse i comandi della jeep per fermarla: erano arrivati a pochi metri da Roger. Brad si liberò delle cinture di sicurezza e scivolò goffamente giù dal sedile, avanzando con lento passo sgraziato verso Roger, per studiarlo. — Tutto a posto? — chiese ansiosamente. — Ma sì, certo: lo vedo benissimo. Come va il senso d’equilibrio? Chiudi gli occhi, per favore… voglio dire, sai bene, spegni la vista. — Scrutò attento gli emisferi sfaccettati. — Lo hai fatto? Non posso capirlo, lo sai.

— L’ho fatto, — disse Roger, attraverso la radio che aveva nella testa.

— Magnifico! Niente vertigini, eh? Non fai fatica a tenerti in equilibrio? Tieni gli occhi chiusi, — proseguì, girando intorno a Roger e scrutandolo da tutti gli angoli. — Agita le braccia, in alto e in basso… bene! Adesso falle ruotare come le pale di un mulino a vento, in direzioni opposte… — Kayman non poteva vederlo in volto, ma sentiva la soddisfazione nel tono di Brad. — Magnifico, Roger! Ottimo in tutti i sensi!

— Le mie congratulazioni a entrambi, — disse Kayman, che era sceso dal veicolo e aveva osservato la scena. — Roger?

La testa si girò verso di lui, e sebbene nulla fosse cambiato nell’aspetto degli occhi, Kayman comprese che il cyborg lo stava guardando. — Volevo dire soltanto, — continuò, senza sapere bene come avrebbe finito la frase, — che mi… beh, mi dispiace dello scherzo che ti abbiamo fatto usando l’immagine di Dorrie per trasmetterti messaggi. Ho l’impressione che ti stiamo facendo troppe sorprese.

— Non importa, Don. — Il guaio della voce di Roger, pensò ancora una volta Kayman, era che non si poteva capire molto, dal tono.

— E dopo averti detto questo, — fece. — penso di doverti annunciare che abbiamo un’altra sorpresa per te. Molto bella, credo. Sulie Carpenter ci raggiungerà qui. La sua astronave dovrebbe arrivare tra cinque settimane.

Silenzio; nessuna espressione. — Oh, — disse finalmente Roger. — È molto bello. Sulie è una cara ragazza.

— Sì. — Ma la conversazione non sembrava avere altri sbocchi possibili, ormai, e Brad era impaziente di far eseguire a Roger una serie di piegamenti e di distensioni. Kayman si concesse i privilegi di un turista. Si voltò a guardare le montagne distanti, socchiuse gli occhi verso il sole fulgido, che neppure l’auto-oscuramento del visore rendeva perfettamente sopportabile, e poi girò intorno lo sguardo. Goffamente, riuscì a inginocchiarsi e a raccogliere una manciata di terra sassosa nella mano guantata. Il giorno dopo, sarebbe toccato a lui incominciare la raccolta sistematica di campioni da riportare sulla Terra: era uno dei compiti secondari della missione. Anche dopo mezza dozzina di sbarchi umani e una quarantina di missioni compiute da veicoli automatici, c’era ancora un’insaziabile richiesta di campioni marziani da parte dei laboratori terrestri. Ma in quel momento, Kayman si permise di fantasticare. C’era limonite in abbondanza, in quella sabbia, e i ciottoli di quarzo non erano rotondi; gli spigoli non erano aguzzi, ma non erano stati neppure allisciati dall’attrito. Grattò il suolo. Sopra c’era una polvere giallastra: sotto, il materiale era più scuro e grossolano. C’erano puntolini lucenti, quasi come il vetro. Quarzo? si chiese, e rastrellò ancora, pigramente, con le dita.

Restò immobile, cingendo con le mani un grumo arrotondato, irregolare di cristallo.

Aveva uno stelo. Uno stelo che spuntava dal suolo. E lo stelo si allargava e si divideva in minuti tentacoli scuri e ruvidi.

Radici.

Don Kayman balzò in piedi, girandosi di scatto verso Roger e Brad. — Guardate! — gridò, staccando l’oggetto con la mano guantata. — Buon Dio del cielo, guardate qui!

E Roger, che era semipiegato, si girò e balzò verso di lui. Una mano fece schizzar via lo scintillante oggetto di cristallo che volò roteando nell’aria per una cinquantina di metri, e piegò il metallo del guanto. Kayman sentì un acuto, fulmineo dolore all’avambraccio e vide l’altra mano avventarsi verso il vetro del casco come la zampa di un orso Kodiak infuriato; e fu l’ultima cosa che vide.

CAPITOLO SEDICESIMO

DELLA PERCEZIONE DEI PERICOLI

Vern Scanyon parcheggiò la macchina di traverso, sulle righe gialle che delimitavano lo spazio assegnatogli, balzò a terra e premette con il pollice il bottone dell’ascensore. Era sveglio da meno di venti minuti, ma non era affatto insonnolito. Era furibondo e preoccupato. La segretaria agli appuntamenti presidenziali l’aveva svegliato con una telefonata, per annunciargli che il presidente aveva fatto deviare il suo aereo dalla rotta per fermarsi a Tonka: «Per discutere i problemi del sistema percettivo del comandante Torraway». Per. fare sfuriate, più esattamente. Scanyon non aveva saputo nulla dell’improvviso assalto di Roger contro Don Kayman se non quando era salito in macchina per precipitarsi al palazzo del progetto ad attendere il presidente.

— Buongiorno, Vern. — Jonny Freeling, anche lui, era spaventato e furioso. Scanyon gli passò davanti e si infilò nel suo ufficio.

— Avanti, avanti. — latrò. — E adesso, in parole semplici e chiare, cos’è successo?

Freeling ribatté risentito: — Non spetta a me…

— Freeling.

—  I sistemi di Roger hanno un po’ esagerato le reazioni. A quanto pare, Kayman si è mosso all’improvviso, e i sistemi di simulazione hanno interpretato il gesto come una minaccia: Roger si è difeso e ha spinto via Kayman.

Scanyon spalancò gli occhi.

— Gli ha fratturato il braccio, — si corresse Freeling. — È stata una frattura semplice, generale. Nessuna complicazione. Guarirà perfettamente… Kayman dovrà arrangiarsi per un po’ con un braccio solo. È un peccato per Don, naturalmente. Non sarà molto comodo…