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La fase successiva consistette nello stendere tre grandi pellicole monomolecolari: prima la più piccola e in alto la più grande. Quest’ultima venne fissata al terreno tutto intorno all’orlo, in modo che non vi fossero perdite. Poi portarono fuori le pompe, a bordo della jeep dalle ruote a canestro e le misero in moto. L’atmosfera marziana era estremamente rarefatta, ma esisteva; le pompe avrebbero finito per riempire le cupole, in parte con l’anidride carbonica e l’azoto atmosferici compressi, in parte, con il vapore acqueo che veniva estratto per ebollizione dalle rocce. Naturalmente, non c’erano quantitativi apprezzabili d’ossigeno, ma non era necessario che lo trovassero. Lo avrebbero prodotto, esattamente nello stesso modo con cui ha prodotto il suo ossigeno la Terra: grazie all’intercessione della fotosintesi vegetale.

La cupola esterna avrebbe impiegato quattro o cinque giorni per riempirsi, alla pressione preventivata di un quarto di chilogrammo. Allora avrebbero cominciato a riempire la seconda, sin quasi a un chilogrammo: in questo modo, nello spazio sempre più ridotto dell’intercapedine esterna, la pressione sarebbe salita a circa mezzo chilo. Infine, avrebbero riempito la cupola interna alla pressione di due chilogrammi, e avrebbero ottenuto in tal modo un ambiente in cui gli esseri umani potevano vivere senza tute pressurizzate, e persino respirare, non appena le colture vegetali avessero fornito loro qualcosa di respirabile.

Naturalmente, Roger non ne aveva bisogno. Non aveva bisogno di ossigeno; e neppure delle piante per nutrirsi, o almeno non ne avrebbe avuto molto bisogno né per lungo tempo. Poteva continuare, forse in eterno, a vivere dell’immancabile energia solare che provvedeva a fornirgli quasi tutta la sua energia, più quella che gli sarebbe stata trasmessa a mezzo di microonde dal generatore MHD, quando questo fosse stato sistemato al suo posto. Quel po’ che era necessario per la minuscola parte residua di lui ancora animalesca poteva venire facilmente fornito per molto tempo dagli alimenti concentrati portati dall’astronave; e soltanto allora, all’incirca dopo un paio d’anni marziani, Roger avrebbe incominciato a dipendere dai prodotti delle vasche idroponiche e dai semi che già stavano germogliando nelle serre fredde sigillate sotto le cupole.

Tutto questo lavoro richiese parecchi giorni, poiché Kayman non poteva essere di grande aiuto. Infilare e sfilare la tuta a pressione per lui era una tortura, perciò lo lasciavano quasi sempre a bordo del modulo. Quando venne il momento di portare alla cupola i serbatoi del liquame scrupolosamente prelevato dalla loro toeletta, Kayman diede una mano agli altri due. — Esattamente una mano, — osservò, mentre cercava di maneggiare il rastrello dal manico di magnesio, agganciandolo con il braccio illeso.

— Te la cavi benissimo, — lo incoraggiò Brad. Ormai nella cupola interna la pressione bastava a sollevare l’involucro fin sopra le loro teste, ma non permetteva di togliersi le tute. Ma forse era un bene, pensò Brad: in quel modo non avrebbero sentito il puzzo del liquame che stendevano con i rastrelli nel suolo sterile.

Quando la cupola raggiunse l’estensione massima, la pressione era salita a cento millibar. Equivale alla pressione dell’atmosfera terrestre a circa sedici chilometri sul livello del mare. Non è un ambiente in cui un uomo indifeso possa sopravvivere e lavorare molto a lungo: tuttavia, in un ambiente del genere, egli morirà soltanto se qualcosa lo uccide. Metà di tale pressione gli sarebbe letale immediatamente: la temperatura corporea sarebbe sufficiente a far evaporare i liquidi del suo organismo.

Ma quando la pressione interna raggiunse i cento millibar, tutti e tre passarono attraverso le tre camere stagne successive, e Brad e Don Kayman si tolsero cerimoniosamente le tute pressurizzate. Brad e Don si misero maschere simili ai boccagli dei respiratori subacquei; nell’interno della cupola non c’era ancora abbastanza ossigeno. Comunque, respiravano l’ossigeno puro delle bombole che portavano legate sul dorso: e per la prima volta erano liberi quasi come Roger, all’interno di un pezzetto di Terra trapiantato, che aveva un diametro di cento metri ed era alto quanto un palazzo di dieci piani.

E in quell’ambiente, in file ben ordinate, i semi che avevano piantato cominciavano già a germogliare.

Intanto…

Il veicolo con il generatore magnetoidrodinamico raggiunse l’orbita marziana, e con l’aiuto del generale Hesburgh, abbinò la propria orbita a quella di Deimos e si annidò nel cratere. Fu un accoppiamento perfetto. Il veicolo estromise i trampoli per toccare la roccia della piccola luna, li piantò nel suolo e si fermò. Un breve getto del sistema di manovra ne controllò la stabilità: orinai era divenuto parte di Deimos. Il sistema energetico cominciò la sequenza per entrare in piena attività. Una fiamma a fusione svegliò i fuochi del plasma. Il radar si protese per trovare l’obiettivo sul modulo, e poi si bloccò sulla cupola. Cominciò a fluire l’energia. La densità del campo era così bassa che Brad e Kayman potevano aggirarvisi senza neppure accorgersene, e per Roger era simile al delizioso tepore del sole: ma le strisce di stagnola disposte sulla cupola esterna raccoglievano l’energia trasmessa dalle microonde e la convogliavano verso le pompe e le batterie. Il combustibile per la fusione aveva una vita di cinquant’anni. Almeno per tutto quel tempo vi sarebbe stata energia sufficiente per Roger e per il suo computer portatile, su Marte, qualunque cosa accadesse sulla Terra.

E intanto…

C’erano altri accoppiamenti.

Nella lunga spirale dalla Terra a Marte. Sulie Carpenter e il suo pilota, Dinty Meighan, avevano avuto anche troppo tempo libero, e avevano trovato il modo di utilizzarlo.

L’atto dell’accoppiamento in caduta libera presenta certi problemi. Per prima cosa, Sulie dovette legarsi con una cintura di sicurezza alla vita, poi Dinty la strinse con le braccia, e lei lo avvinghiò con le gambe. I loro movimenti erano lenti, come quelli dei subacquei. Sulie impiegò un lungo, dolce tempo sognante per arrivare all’orgasmo, e Dinty fu ancora più lento. Quando finirono, quasi non ansimavano neppure. Sulie si stiracchiò e sbadigliò, inarcando il ventre contro la cintura di sicurezza. — Bello, — disse con voce assonnata. — Me lo ricorderò.

— Lo ricorderemo tutti e due, tesoro, — disse Dinty, fraintendendola. — Credo che sia il modo migliore di far l’amore. La prossima volta…

Sulie scosse il capo per interromperlo. — Non ci sarà una prossima volta, Dinty caro. Basta così.

L’uomo trasse indietro la testa per guardarla. — Cosa?

Lei sorrise. Il suo occhio destro era ancora a pochi centimetri dall’occhio sinistro di lui, e ognuno di loro vedeva l’altro bizzarramente, di scorcio. Sulie si protese e strofinò dolcemente la guancia contro la guancia ispida del suo compagno.

Dinty fece una smorfia e si ritrasse: all’improvviso, si sentiva ancora più nudo. Riprese i calzoncini dalla maniglia dove li aveva infilati, e se li mise.

— Sulie, che ti prende?

— Niente. Siamo quasi pronti per entrare in orbita, ecco tutto.

L’uomo si spinse all’indietro, nello spazio limitato, per guardarla meglio. Sulie era uno spettacolo che meritava. I suoi capelli erano ridiventati biondoscuri e gli occhi erano castani, senza le lenti a contatto; e anche se da quasi duecento giorni non era mai a più di dieci metri da lui, a Dinty Meighan appariva ancora bellissima. — Non pensavo che potessi riservarmi ancora qualche sorpresa, — esclamò, meravigliato.

— Non si può mai dire, con una donna.

— Suvvia, Sulie! Cos’è questa storia? Parli come se avessi intenzione di… Ehi! — Un pensiero improvviso lo colpì. — Tu ti sei offerta volontaria per questa missione… non per andare su Marte, ma per raggiungere qualcuno! Giusto? Uno di quelli che ci hanno preceduti?