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— Un momento! — gridò il presidente. — Vuol dire che i nostri calcolatori sono collegati tanto con l’UNESCO, che usano anche gli asiatici, e con la Macchina di Guerra.

— Non vi sono assolutamente possibilità di fughe.

— Una fuga c’è stata, Carousso!

— Ma non a favore degli asiatici, signor presidente.

— Ha appena finito di dirmi che c’è un cavo che esce dai nostri computer e arriva alla Macchina da Guerra, e un altro che va diritto diritto dagli asiatici, passando attraverso l’UNESCO.

— Comunque, signor presidente, le garantisco che non si tratta degli asiatici. Lo sapremmo, altrimenti. Tutti i computer principali sono in una certa misura collegati tra loro. E come dire che c’è una strada che va da un posto qualunque a qualunque altro posto. Certo, c’è. Ma ci sono anche i posti di blocco. È assolutamente impossibile che la Nuova Asia Popolare possa accedere alla Macchina da Guerra, o a quasi tutti quegli studi. E comunque, se fosse così, lo avremmo saputo dai nostri informatori. Gli asiatici non l’hanno fatto. E in ogni caso, signor presidente, — continuò Carousso, — lei sa trovare un motivo per cui la Nuova Asia Popolare altererebbe i risultati per indurci a colonizzare Marte?

Il presidente tamburellò con i pollici, guardandosi intorno. — Sono disposto a seguire la sua logica, Chuck. Ma se non sono stati gli asiatici a manomettere i nostri computer, allora chi è stato?

Il capo della CIA rimase chiuso in un cupo silenzio.

— E in nome di Cristo, — ringhiò Dash, — perché?

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

UN GIORNO NELLA VITA DI UN MARZIANO

Roger non poteva vedere la dolce pioggia di energia a microonde che scendeva da Deimos, ma la percepiva come un piacevole tepore. Quando era vicino, spiegava le ali, assorbendo nuova forza. Quando era fuori dal raggio, ne portava con sé una parte, negli accumulatori. Non aveva motivo di accumularne altra, adesso. Nuova energia scendeva dal cielo ogni volta che Deimos si trovava sopra l’orizzonte. Vi erano solo poche ore al giorno in cui nel cielo non vi erano né il sole né la più lontana delle due lune, e la sua capacità accumulata era più che sufficiente per quei brevi periodi di astinenza.

Dentro le cupole, naturalmente, le antenne di sottilissime lastre metalliche rubavano l’energia prima che giungesse a Roger, e perciò egli limitava il tempo che vi trascorreva insieme a Brad e a Kayman. Non gli dispiaceva affatto. Preferiva così. Ogni giorno, del resto, l’abisso tra loro si allargava. Brad e Kayman sarebbero ritornati al loro pianeta: Roger sarebbe rimasto sul suo. Questo non lo aveva ancora annunciato, ma ormai era deciso. La Terra cominciava a sembrargli un posto simpatico, bizzarro ed estraneo, che un tempo aveva visitato ma che non gli era piaciuto molto. Le sofferenze ed i pericoli dell’umanità terrestre non lo riguardavano più. Neppure quando erano state le sue sofferenze e le sue paure.

Dentro la cupola Brad, che portava indosso un paio di slip e una bombola d’ossigeno, piantava allegramente pianticelle di carote tra i filari di avena siberiana. — Vuoi darmi una mano, Rog? — La voce era alta e acuta nell’atmosfera rarefatta: spesso traeva boccate di ossigeno dal boccaglio appeso vicino al suo mento; e allora, quando espirava, la sua voce era un poco più profonda, ma sempre strana.

— No. Don vuole che gli raccolga altri campioni. Starò fuori tutta la notte.

— Sta bene. — A Brad interessavano di più le sue pianticelle, e Torraway non s’interessava più di Brad. Talvolta ricordava che quell’uomo era stato l’amante di sua moglie, ma per provare una sensazione al riguardo doveva ricordare a se stesso di aver avuto una moglie. Gli pareva che non ne valesse la pena. Erano molto più interessanti l’alta valle concava, al di là della più lontana catena di montagne, e il suo campicello personale. Ormai da settimane portava a Don Kayman esemplari di forme viventi marziane. Non erano abbondanti: magari due o tre insieme, e poi nient’altro per centinaia di metri tutto intorno. Ma non era difficile trovarli… non per lui. Non appena aveva imparato a riconoscere il loro speciale colore — le lunghezze d’onda ultraviolette, riflesse dalle calotte cristalline per permettere la sopravvivenza in quell’aspro ambiente di radiazioni — istintivamente filtrava la propria gamma visiva, per vedere soltanto il colore di quella lunghezza d’onda, e allora spiccavano anche a un chilometro di distanza.

Perciò ne aveva portati una dozzina, e poi un centinaio; sembrava che appartenessero a quattro varietà distinte, e non passò molto tempo prima che Kayman gli dicesse di smetterla. Il prete aveva tutti i campioni che gli occorrevano per studiarli, e un’altra mezza dozzina d’ogni varietà conservata in formalina, per portarli sulla Terra; e la sua anima mite provava rimorso al pensiero di alterare l’ecologia di Marte. Roger cominciò a trapiantare alcuni esemplari nei pressi della cupola. Diceva a se stesso che lo faceva per vedere se l’energia trasmessa dal generatore danneggiava in qualche modo le forme di vita indigene.

Ma in fondo al cuore sapeva bene che in realtà si dedicava al giardinaggio. Era il suo pianeta, e cercava di abbellirlo per se stesso.

Uscì dalla cupola, si stiracchiò beato per un momento nel duplice tepore del sole e delle microonde e controllò le batterie. Sarebbe stato meglio caricarle un po’: con destrezza, innestò i cavi nello zaino e nell’accumulatore ronzante alla base della cupola e, senza guardare in direzione del modulo, disse: — Sto per decollare, Don.

Subito la voce di Kayman rispose via radio. — Mettiti in contatto con noi almeno ogni due ore, Roger. Non voglio essere costretto a venirti a cercare.

— Tu ti preoccupi troppo, — disse Roger, staccando i cavi e riponendoli.

— Sei soltanto sovrumano, — borbottò Kayman. — Non sei Dio. Potresti cadere, romperti qualcosa…

— Non succederà niente. Brad? Arrivederci.

All’interno della triplice cupola, Brad alzò la testa dagli steli di grano che gli arrivavano alle ascelle e agitò le braccia in segno di saluto. Era impossibile scorgere il suo volto attraverso le pellicole delle cupole; la plastica era stata ideata in modo da escludere gran parte delle radiazioni ultraviolette, e confondeva un po’ anche alcune lunghezze d’onda della luce visibile. Ma Roger vide quel saluto. — Sii prudente. Chiamaci prima di sparire dalla linea della visuale, così sapremo quando dovremo cominciare a preoccuparci.

— Sì, mammina. Era strano, rifletté Roger. Si sentiva veramente affezionato a Brad. La situazione lo interessava come problema astratto. Forse perché era un castrato? Nel suo organismo circolava il testosterone: a questo provvedeva la capsula di steroidi che gli avevano innestato. I suoi sogni erano talvolta sessuali; talvolta sognava Dorrie; ma la disperazione e la rabbia che l’avevano assillato sulla Terra, su Marte si erano attenuate.

Era già a un chilometro dalla cupola, e correva in scioltezza nella luce tepida del sole: ad ogni passo posava il piede esattamente dove avrebbe trovato terreno solido, ogni spinta lo portava esattamente in alto e in avanti, come lui voleva. La vista era regolata sulla sorveglianza a bassa energia, e assorbiva tutto in una forma mobile a goccia: la punta era dov’egli si trovava, e il lobo, del diametro di cinquanta metri, era cento metri più avanti di lui. Roger non era ignaro del resto del paesaggio. Se fosse comparso qualcosa d’insolito, e soprattutto se si fosse mosso qualcosa, l’avrebbe visto immediatamente. Ma ciò non lo distraeva dalle sue riflessioni. Tentò di ricordare le sensazioni che gli aveva dato fare l’amore con Dorrie. Non era difficile rammentare i parametri fisici, oggettivi. Era molto più difficile sentire ciò che aveva provato a letto con lei. Era come cercare di rammentare la gioia sensuale di un cioccolatino quando lui aveva undici anni, o il suo primo «viaggio» con la marijuana quando ne aveva quindici. Era più facile provare qualcosa per Sulie Carpenter, sebbene, a quanto ricordava, non avesse mai toccato altro che le punte delle dita di lei, e soltanto per caso. (Naturalmente, Sulie aveva toccato tutte le parti di lui.) Di tanto in tanto, Roger aveva pensato all’imminente arrivo di Sulie su Marte. All’inizio gli era sembrata una minaccia. Poi era diventato interessante, un cambiamento da attendere con ansia. Adesso… Adesso, pensò Roger, voleva che avvenisse presto, non tra quattro giorni, quando lei sarebbe atterrata, dopo che il suo pilota avesse completato i collaudi in situ con il 3070 e il generatore MHD. Presto. Si erano scambiati qualche parola via radio. Ma la voleva più vicina. Voleva toccarla…