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L’immagine di sua moglie si formò davanti a lui: portava lo stesso monotono prendisole. — È meglio che ti metta in contatto radio, tesoro, — disse lei.

Roger si fermò e si guardò intorno, regolando la vista sullo spettro normale terrestre.

Aveva percorso quasi metà della distanza tra la cupola e le montagne: una decina abbondante di chilometri. Il percorso era in salita, e il terreno, di pianeggiante che era, si era fatto ondulato: Roger riusciva appena a scorgere la parte superiore della cupola, e la punta delle antenne del modulo era una minuscola spiga, più oltre. Senza l’intervento della volontà, le ali si spiegarono dietro di lui per rendere più direzionale il suo segnale radio, così come un uomo si farebbe portavoce con le mani intorno alla bocca. — Tutto bene, — disse, e la voce di Don Kayman gli rispose, dentro la sua testa: — Magnifico, Roger. Fra tre ore sarà buio.

— Lo so. — E quando scendeva l’oscurità, la temperatura precipitava: tra sei ore avrebbe potuto raggiungere i centocinquanta gradi sotto zero. Ma Roger era rimasto fuori al buio altre volte, e tutti i suoi sistemi avevano funzionato splendidamente. — Ti richiamerò ancora quando sarò abbastanza in alto su un pendio per mettermi in contatto, — promise. Si voltò e riprese a dirigersi verso le montagne. L’atmosfera era più caliginosa. Roger controllò i suoi ricettori epidermici e si rese conto che s’era levato il vento, e si andava rinforzando. Una tempesta di sabbia? Era sopravvissuto anche a quelle; se fosse diventata minacciosa, si sarebbe raggomitolato come un riccio da qualche parte, in attesa che cessasse. Ma doveva essere una tempesta davvero terribile, perché questo si rendesse necessario. Sogghignò tra sé — non aveva imparato bene a farlo con la sua nuova faccia — e procedette a grandi balzi…

Al tramonto era all’ombra delle montagne, e già abbastanza in alto per vedere chiaramente la cupola, a più di venti chilometri.

La tempesta di sabbia infuriava sotto di lui, ormai, e sembrava si allontanasse. Roger si era fermato due volte per qualche istante e aveva atteso, con le ali ripiegate. Ma era stata soltanto una precauzione; la tempesta non gli aveva mai dato molto fastidio. Spiegò le ali dietro di sé e disse, via radio: — Don Brad? Qui è il vostro vagabondo a rapporto.

La risposta dentro alla sua testa, quando arrivò, era gracchiante e distorta, una sensazione spiacevole, come strofinarsi sui denti un pezzo di carta vetrata. — Il tuo segnale è pessimo, Rog. Va tutto bene?

— Sicuro. — Ma Roger esitò. Le scariche causate dalla tempesta erano abbastanza forti e in un primo momento non avrebbe saputo dire con certezza quale dei due compagni gli avesse parlato. Solo dopo qualche istante aveva identificato la voce di Brad. — Forse adesso tornerò indietro, — annunciò.

L’altra voce, ancora più distorta: — Se lo farai, Roger, renderai felice un vecchio prete. Vuoi che ti veniamo incontro?

— No, diavolo. Posso muovermi più in fretta di voi. Andate a dormire: ci vediamo fra quattro o cinque ore.

Roger chiacchierò ancora per qualche istante, poi sedette e si guardò intorno. Non era stanco. Aveva quasi dimenticato cosa si prova quando si è stanchi; la notte, di solito, dormiva un’ora o due, e di tanto in tanto dormicchiava durante il giorno, più per noia che per stanchezza. La sua parte organica imponeva ancora certe esigenze al suo metabolismo, ma la stanchezza schiacciante dello sforzo prolungato non apparteneva più alla sua esperienza. Si era seduto perché gli piaceva mettersi tranquillo su uno spuntone di roccia e guardare la valle che era casa sua. La lunga ombra delle montagne aveva già superato la cupola, e soltanto i picchi, da quella parte, erano ancora illuminati. Roger poteva vedere il limite della luce: l’atmosfera rarefatta di Marte non diffondeva molto l’ombra. Quasi riusciva a vederlo muoversi.

Il cielo, lassù, era bellissimo e splendente. Era abbastanza facile vedere le stelle più luminose anche durante il giorno, specialmente per Roger: ma di notte erano fantastiche. Riusciva a distinguere chiaramente i diversi colori: Sirio azzurra come l’acciaio, la sanguigna Aldebaran, l’oro affumicato della stella Polare. Espandendo lo spettro visibile nell’infrarosso e nell’ultravioletto, egli poteva vedere nuove fulgide stelle di cui non conosceva i nomi: e forse non avevano neppure nomi comuni, poiché eccettuato lui le avevano viste soltanto gli astronomi, servendosi di lastre speciali. Pensò alla questione dell’assegnazione dei nomi: se era l’unico che poteva vedere quella chiazza luminosa, là nella costellazione di Orione, aveva anche il diritto di battezzarla? Qualcuno avrebbe trovato da ridire se l’avesse chiamata «Stella di Sulie»?

Del resto, egli poteva vedere quello che, per il momento, era la stella di Sulie… o il corpo celeste di Sulie. Deimos non era una stella, naturalmente. Alzò lo sguardo verso la piccola luna, e si divertì a. immaginare il viso di Sulie…

— ROGER, TESORO…

Torraway balzò in piedi, e atterrò un metro più in là. L’urlo, dentro alla sua testa, era stato assordante. Era vero? Non poteva saperlo. Le voci di Brad e di Don Kayman e quella simulata di sua moglie risuonavano egualmente familiari, dentro di lui. Non sapeva neppure con certezza di chi fosse… di Dorrie? Ma lui aveva pensato a Sulie Carpenter, e la voce era così bizzarramente alterata che poteva essere di entrambe, o di nessuna delle due.

Poi non vi furono suoni, eccettuati i ticchettii, i cigolii e gli stridii che salivano dalle rocce, via via che la crosta marziana reagiva al rapido abbassamento della temperatura. Roger non sentiva il freddo come freddo: il suo impianto di riscaldamento interno manteneva a temperatura costante la sua parte sensibile, e avrebbe continuato a farlo senza difficoltà durante tutta la notte. Ma sapeva che adesso erano almeno cinquanta gradi sotto zero.

Un’altra esplosione: — ROG… CREDO CHE DOVRESTI…

Sebbene ora egli fosse sull’avviso, quel grido rauco fu doloroso. Stavolta scorse una rapida, fuggevole visione dell’immagine simulata di Dorrie, librata bizzarramente nel nulla, all’altezza di una dozzina di metri.

L’addestramento ebbe la meglio. Roger si girò verso la cupola lontana, o almeno dove credeva che fosse, spiegò le ali dietro di sé e disse chiaramente: — Don! Brad! C’è qualcosa che non funziona. Ricevo un segnale ma non riesco a leggerlo.

— ROGER!

Era di nuovo Dorrie, dieci volte più grande del naturale: torreggiava sopra di lui, e sul suo volto c’era una smorfia di collera e di paura. Sembrò tendere le braccia verso di lui; poi si piegò stranamente da un lato, come un’immagine televisiva che guizza via dal tubo catodico, e sparì.

Roger provò una strana sofferenza, cercò di scacciarla pensando che fosse paura, la provò di nuovo e si accorse che era freddo. C’era qualcosa che non andava affatto. — Mayday! — gridò. — Don! Sono nei guai… aiutatemi! — Le lontane montagne scure parvero ondeggiare lentamente. Roger alzò gli occhi. Le stelle diventavano liquide e sgocciolavano dal cielo.

Nel sogno di Don Kayman, egli era seduto insieme a suor Clotilda su alcuni cuscini davanti a una cascata, e tutti e due mangiavano spugne. Non finte spugne di zucchero: spugne da cucina, intinte in una specie di fondue. Clotilda lo avvertiva del pericolo. — Ci scacceranno, — diceva, tagliando un quadratino di spugna e infilzandolo su una forchetta d’argento a due punte, — perché tu hai avuto un brutto voto nelle omelie… E intingeva il pezzetto di spugna nel tegamino a fondo di rame sul fornelletto ad alcool. — E devi assolutamente svegliarti…