Don Kayman si svegliò.
Brad era chino su di lui. — Andiamo, Don. Dobbiamo andare.
— Cosa succede? — Kayman si tirò sul petto il sacco a pelo, con la mano illesa.
— Non riesco a ottenere una risposta da Roger. Non risponde. Gli ho trasmesso un segnale d’emergenza. Poi mi è sembrato di sentirlo alla radio, ma molto debole. O è fuori dalla linea di visuale, oppure la sua trasmittente non funziona.
Kayman si trascinò fuori dal sacco a pelo e si mise a sedere. In quei momenti, appena si svegliava, il braccio gli faceva più male del solito: anche adesso. Cercò di non pensarci. — Hai la posizione?
— Solo quella di tre ore fa. In quest’ultima trasmissione non ci sono riuscito.
— Non può essere molto lontano. — Kayman stava già infilando le gambe nella tuta pressurizzata. Poi venne la parte più difficile: cercare di inserire delicatamente nella manica l’avambraccio fratturato. Insieme, i due uomini riuscirono ad allargare un po’ la manica, sigillando l’inizio d’una lacerazione. Ma riuscirono a malapena: non sarebbe stato facile neppure nelle condizioni migliori. Adesso, poiché cercavano di affrettarsi, era un’impresa esasperante.
Brad aveva già addosso la tuta e gettava in un sacco strumenti e utensili. — Prevedi di dover eseguire un’operazione di emergenza là fuori? — domandò Kayman.
Brad fece una smorfia e continuò il suo lavoro. — Non so cosa dovrò fare. È notte alta, Don, e Roger è almeno a una quota di cinquecento metri. Fa freddo.
Kayman si azzitti. Quando riuscì a chiudere la tuta, Brad aveva già lasciato il modulo da diversi minuti e aspettava al volante della jeep marziana. Kayman si issò a bordo faticosamente, e il veicolo si mosse prima che egli avesse la possibilità di agganciarsi la cintura di sicurezza. Riuscì a tenersi saldo con i tacchi e il braccio che non poteva piegare, mentre si allacciava con l’altra mano, ma faticò parecchio. — Hai idea di dove si trovi? — domandò.
— Tra le montagne, da qualche parte, — disse la voce di Brad al suo orecchio. Kayman rabbrividì e abbassò il volume della radio.
— Forse a due ore da qui, — disse, calcolando in fretta.
— Se si è già mosso per tornare indietro, può darsi. Se non si può muovere… o se si aggira da quelle parti, e dobbiamo cercare di rintracciarlo con il RDF… — La voce tacque. — Penso che non abbia difficoltà con la temperatura, — riprese Brad dopo un minuto. — Ma non so. Non so cosa sia successo.
Kayman guardava davanti a sé. Oltre il vivido campo luminoso del faro del veicolo, non si vedeva nulla: solo che la distesa lucente delle stelle era interrotta all’orizzonte, come l’orlo frastagliato di una sottocoppa. Là c’era la catena di montagne. Kayman sapeva che Brad la usava come riferimento: mirando sempre al punto più basso sotto il doppio picco al nord e quello altissimo un po’ più a sud. La fulgida Aldebaran in quel momento splendeva al di sopra della vetta più alta: sarebbe stata di per sé un buon punto di riferimento, almeno fino a quando fosse tramontata, di lì a un’ora circa.
Kayman attivò l’antenna del veicolo. — Roger, — disse, alzando la voce, sebbene sapesse che questo non cambiava nulla. — Mi senti? Ti stiamo venendo incontro.
Non ci fu risposta. Kayman si abbandonò sul sedile anatomico, nella speranza di attutire i sussulti del veicolo. Era già abbastanza tremendo correre sulle ruote a canestro sopra la parte più pianeggiante del terreno. Quando incominciarono la scalata, servendosi delle zampe a trampolo della jeep, il prete temette di venire sbalzato fuori, nonostante la cintura di sicurezza, ed ebbe la certezza che come minimo avrebbe vomitato. Davanti a lui, il raggio sobbalzante del faro faceva spiccare una duna, uno spuntone roccioso, talvolta riflettendo una lama di luce da una superficie cristallina. — Brad, — disse, — quella luce non ti fa impazzire? Perché non usi il radar?
Udì un respiro convulso attraverso la radio, come se Brad si fosse trattenuto a stento dall’imprecare contro di lui. Poi il suo compagno tese la mano verso i comandi inseriti sul piantone del volante. Il pannello azzurrognolo situato sotto lo schermo antisabbia si accese, rivelando il terreno davanti a loro: il faro si spense. Adesso era più facile scorgere il contorno nero delle montagne.
Trenta minuti. Al massimo, potevano aver coperto un terzo del percorso.
— Roger, — chiamò di nuovo Kayman. — Mi senti? Stiamo arrivando. Quando saremo abbastanza vicini, ti inquadreremo sul radar. Ma se puoi, rispondi subito…
Non vi fu risposta.
Una lampada all’argon, grande come un chicco di riso, cominciò a lampeggiare rapidamente sul cruscotto. I due uomini si guardarono, attraverso i vetri dei caschi, e poi Kayman si tese e fece scattare la radio sul canale dell’orbita. — Qui Kayman, — disse.
— Padre Kayman? Che succede, laggiù?
Era una voce femminile, il che significava, naturalmente, che si trattava di Sulie Carpenter. Kayman scelse con cautela le parole: — Roger ha qualche difficoltà di trasmissione. Andiamo a controllare.
— Sembra che sia qualcosa di peggio. Ho ascoltato, mentre cercavate di mettervi in comunicazione con lui. — Kayman non rispose, e la voce proseguì: — Noi l’abbiamo localizzato, se volete le coordinate?…
— Sì! — urlò il prete, infuriandosi con se stesso; avrebbe dovuto pensare subito al RDF di Deimos. Sarebbe stato facile, per Sulie o per i due astronauti in orbita, guidarli verso l’obiettivo.
— Coordinate tre poppa uno sette, due due zebra quattro zero. Ma si muove. Orientamento circa otto nove, velocità circa dodici chilometri orari.
Brad controllò la loro rotta e disse: — Stiamo andando diritti verso di lui. È reciproco: Roger viene verso di noi.
— Ma perché tanto lentamente? — domandò Kayman.
Dopo un secondo, giunse la voce della ragazza: — È quel che voglio sapere. È ferito?
Kayman ribatté irritato: — Non lo sappiamo. Hai tentato a metterti in contatto radio?
— Parecchie volte… un momento. — Una pausa, e poi di nuovo la voce: — Dinty mi dice di riferirvi che ve lo terrà localizzato finché potrà, ma stiamo arrivando a una posizione sfavorevole. Perciò non farei conto sulle nostre posizioni dopo… come? Forse altri quarantacinque minuti. E dopo altri venti minuti saremo completamente al di sotto dell’orizzonte.
Brad disse: — Fate tutto il possibile. Don. Tienti forte. Voglio vedere che velocità può raggiungere questo catorcio.
Gli scossoni del veicolo triplicarono, quando Brad accelerò. Kayman riuscì a non vomitare dentro il casco, e si tese in avanti per studiare il tachimetro. La registrazione del percorso sulla mappa a striscia, accanto allo schermo radar, diceva il resto: anche se fossero riusciti a mantenere quella velocità, Deimos sarebbe tramontato prima che potessero raggiungere Roger Torraway.
Kayman attivò di nuovo l’antenna direzionale. — Roger, — chiamò. — Mi senti? Rispondi!
Trenta chilometri più oltre, Roger era prigioniero entro il proprio corpo.
Secondo le sue percezioni, correva veloce verso casa, con una strana andatura rapidissima. Sapeva che le sue percezioni erano errate. Non sapeva quanto; non sapeva come; ma sapeva che il fratello sulle sue spalle aveva alterato il suo senso del tempo e le interpretazioni degli input sensoriali; e ciò che sapeva con maggiore certezza era che non era più in grado di controllare quanto gli accadeva. L’andatura, ne era intellettualmente certo, era un passo lento e faticoso. Ma aveva la sensazione di correre. Il paesaggio fluiva rapidamente intorno a lui, secondo le sue percezioni, come se egli stesse correndo. Ma la velocità massima si raggiungeva con grandi balzi, e invece i suoi piedi non si staccavano mai contemporaneamente dal suolo. Conclusione: lui camminava, ma il computer a zaino aveva rallentato il suo senso del tempo, probabilmente per farlo restare ragionevolmente tranquillo.