Ma se era così, non era riuscito nell’intento.
Quando il fratello portatile aveva assunto il comando era stato terrificante. Prima Roger si era alzato in piedi, bloccato; non poteva muoversi, non poteva neppure parlare. Tutto intorno a lui il cielo nero era increspato dai guizzi dell’aurora boreale, il suolo ondulava incerto come le ondate di calore che salgono da un deserto; immagini fantasma apparivano e scomparivano alla sua vista. Roger non poteva credere a ciò che gli dicevano i suoi sensi, e non poteva piegare neppure un dito. Poi sentì le proprie mani tendersi dietro di lui, palpare e seguire le giunture, dove le ali si saldavano alle scapole, cercare i cavi che portavano alle batterie. Un’altra pausa pietrificata. Poi ancora, le sue dita che tastavano intorno ai terminali del computer. Ne sapeva abbastanza per capire che il computer controllava se stesso: ma non sapeva cosa scoprisse, né cosa potesse fare, una volta individuato il guasto. Un’altra pausa. Poi Roger sentì le proprie dita frugare le prese dove egli inseriva i cavi per la ricarica…
Un dolore violento lo colpì, come il mal di testa più orrendo, come una mazzata. Durò solo un momento, e poi spari, lasciando solo un immenso, lontano lampo di folgore. Roger non aveva mai provato nulla di simile. Sapeva che le sue dita raschiavano delicatamente e abilmente i terminali. Vi fu un’altra fitta di dolore quando, apparentemente, le sue dita crearono un corto circuito momentaneo.
Poi sentì se stesso chiudere lo sportello, e si accorse che aveva dimenticato di farlo quando si era ricaricato, alla cupola.
E poi, dopo un’altra pausa di immobilità, aveva incominciato a muoversi lentamente, prudentemente, giù per il pendio, in direzione della cupola.
Non sapeva da quanto tempo era in cammino. Ad un certo punto la sua percezione del tempo era rallentata, ma non era neppure in grado di dire quando fosse accaduto. Tutte le sue percezioni erano controllate e censurate. Questo lo sapeva, perché quel tratto di terreno che percorreva era lievemente illuminato e a colori, mentre tutto il resto, intorno, era quasi di un nero informe. Ma non poteva cambiare nulla. Non poteva mutare neppure la direzione dello sguardo che, con la regolarità di un metronomo, si spostava da una parte o dall’altra, meno frequentemente scrutava il cielo o si voltava a guardare indietro; ma per il resto del tempo era fisso sul tratto che andava percorrendo e poteva vedere solo perifericamente il resto del paesaggio notturno.
E i suoi piedi si muovevano, uno dopo l’altro, uno dopo l’altro… a quale velocità? Cento passi al minuto? Non era in grado di dirlo. Roger pensò di farsi un’idea del tempo osservando le stelle che si staccavano dall’orizzonte, ma sebbene non fosse difficile contare i passi, e tentare di calcolare quando le stelle più basse erano salite di quattro o cinque gradi, quindi circa dieci minuti… gli era impossibile tenere tutto in mente per il tempo necessario a ottenere un risultato significativo. E il suo sguardo continuava a staccarsi senza preavviso dall’orizzonte.
Roger Torraway era completamente prigioniero del fratello portatile, soggetto alla sua volontà, ingannato dalle sue interpretazioni: ed era terribilmente preoccupato.
Che cos’era accaduto? Perché aveva freddo, se in lui c’era così poco che poteva percepire una realtà sensoriale? Eppure desiderava che sorgesse il sole, sognava con nostalgia di crogiolarsi nella radiazione delle microonde trasmesse da Deimos. Faticosamente, Roger sentiva di ragionare in base alla realtà che gli si offriva. Sentiva freddo. Aveva bisogno di immissioni di energia: questa era l’interpretazione. Ma perché aveva bisogno di altra energia, se aveva ricaricato da poco le batterie? Accantonò quel quesito perché non poteva trovare una risposta, ma l’ipotesi gli sembrava credibile. Spiegava la lentezza del suo movimento: camminare era un modo di muoversi assai più lento della solita corsa a grandi balzi, ma in termini di rapporto tra i chilowattore e i chilometri era più conveniente. Forse l’ipotesi spiegava anche i difetti dei suoi sistemi percettivi. Se il fratello portatile avesse scoperto prima che vi era energia insufficiente per le esigenze prevedibili, sicuramente avrebbe razionato la preziosa scorta per quei bisogni essenziali. O per quelli che esso percepiva come essenziali: viaggiare; impedire che le parti organiche di Roger gelassero; procedere con le abituali procedure di manipolazione dei dati e di controllo. E di questo, purtroppo, Roger non era a conoscenza.
Almeno, rifletté, la missione primaria del computer portatile era proteggere se stesso, il che significava tenere in vita la parte organica di Roger Torraway. Il computer poteva rubare energia dalla parte che lo avrebbe mantenuto sano di mente: poteva privarlo delle comunicazioni, interferire con le sue percezioni. Ma Roger era sicuro che sarebbe ritornato vivo fino al modulo.
Magari pazzo.
Aveva già coperto più di metà del percorso, di questo era quasi sicuro. Ed era ancora sano di mente. Il solo modo per restarlo era evitare di preoccuparsi. Il modo per non preoccuparsi era pensare ad altre cose. Immaginò la presenza vivace di Sulie Carpenter, che sarebbe arrivata di lì a pochi giorni; chissà se parlava sul serio quando diceva di voler restare su Marte. Chissà se anche lui voleva restare. Ricordò le grandiose mangiate che aveva fatto un tempo, la pasta verde agli spinaci con la béchamelle a Sirmione, davanti alle acque luminose e trasparenti del lago di Garda; il bue alla Kobe a Nagoya; il bruciante chili di Matamoras. Pensò alla sua chitarra e decise di portarla fuori e di suonarla. C’era troppo vapore acqueo nell’atmosfera delle cupole, e a Roger non piaceva stare a bordo del modulo; e all’aperto, naturalmente, ì suoni dello strumento erano strani, perché gli giungevano solo attraverso le ossa. Comunque… Ripassò mentalmente i movimenti delle dita per gli accordi, modulando tra i diesis e le settime e le minori. Immaginò le proprie dita che modulavano il mi minore, il re, il do e il si settima dell’inizio di «Greensleeves», e canterellò mentalmente il motivo. A Sulie avrebbe fatto piacere cantare accompagnata dalla chitarra, pensò. E le fredde notti marziane sarebbero trascorse più rapidamente…
Si riscosse, vigile.
Quella notte marziana non trascorreva più tanto rapidamente.
Da un punto di vista soggettivo, sembrava che la sua andatura fosse rallentata, dalla corsa a un passo lungo e costante: ma egli sapeva che non era cambiata; la sua percezione del tempo era ritornata normale, forse ancora un po’ più lenta del normale: gli pareva di camminare con metodica lentezza.
Perché?
C’era qualcosa, più avanti. Almeno a un chilometro di distanza. E molto luminoso.
Roger non riusciva a distinguerlo.
Un drago?
Sembrava avanzare verso di lui a grandi balzi, alitando una lingua di luce, come una fiamma.
Il suo corpo smise di camminare. Cadde in ginocchio e cominciò a strisciare, molto adagio, tenendosi basso.
Era pazzesco, si disse Roger. Su Marte non ci sono draghi. Che cosa sto facendo? Ma non riuscì a fermarsi. Il suo corpo avanzava strisciando, ginocchio destro e mano sinistra, mano destra e ginocchio sinistro, al riparo di una collinetta di sabbia. Meticolosamente e rapidamente cominciò a rimuovere il fine terriccio marziano, per inserirsi nella cavità, per tirarsi addosso un po’ di quel terriccio. Dentro alla sua testa barbugliavano voci esilissime, ma egli non poteva capire ciò che dicevano: erano troppo fievoli, troppo ingarbugliate.