Finalmente il sibilo cessò, e udirono la voce del cyborg. Era acuta come quella d’una bambola parlante. — Grazzzie. Basssta cosssì. — La bassa pressione alterava la sua dizione, soprattutto perché non aveva più una trachea e Una laringe normali. Dopo un mese vissuto da cyborg, l’abitudine di parlare gli era divenuta estranea, perché stava perdendo quella di respirare.
Alle spalle di Roger, l’esperto dei sistemi visivi del laboratorio disse in tono lugubre: — Lo sanno che quegli occhi non sono fatti per sopportare improvvisi cambiamenti di pressione. Gli starebbe bene se se ne spaccasse uno. — Roger rabbrividì, provando una fitta di dolore immaginario all’idea di un globo oculare cristallino che si schiantava nell’orbita. Sua moglie rise.
— Siediti, Brad, — disse lei, liberandosi dell’abbraccio di Roger. Questi si spostò, distrattamente, fissando lo schermo. La voce che aveva contato le cadenze disse: — Pronti. Cinque. Quattro. Tre. Due. Uno. Inizia la sequenza.
Il cyborg si acquattò goffamente davanti alla lastra di una cassetta metallica verniciata di nero. Senza fretta, infilò un cacciavite sottilissimo in una fenditura quasi invisibile, eseguì un meticoloso quarto di giro, ripeté il movimento in un altro punto e sollevò la lastra. Le grosse dita frugarono scrupolosamente tra gli spaghetti multicolori dei cavi interni; ne trovò uno bianco e rosso che era carbonizzato, lo staccò, lo accorciò per togliere l’isolante bruciato, tolse un piccolo tratto del rivestimento recidendolo semplicemente con le unghie, e lo accostò al punto d’attacco. La parte più lunga dell’operazione fu l’attesa che si scaldasse il saldatore; occorse più di un minuto. Poi la saldatura fu compiuta, gli spaghetti vennero rimessi a posto, la lastra risistemata e fissata, e il cyborg si alzò.
— Sei minuti, undici secondi e due quinti, — riferì la voce che aveva contato.
Il direttore del progetto diede il segnale degli applausi. Poi si alzò e tenne un discorsetto. Disse al presidente che il progetto Man Plus aveva lo scopo di modificare un corpo umano per metterlo in grado di sopravvivere sulla superficie di Marte con la stessa sicurezza con cui un uomo normale avrebbe potuto camminare su un campo di grano del Kansas. Fece il riepilogo dell’intero programma spaziale, dal volo suborbitale alle stazioni spaziali e alle sonde. Elencò alcuni dei dati principali relativi a Marte: area di terraferma maggiore di quella terrestre, nonostante il diametro inferiore, data l’assenza di oceani. Temperatura, adatta alla vita… a forme di vita adeguatamente modificate, era ovvio. Ricchezza potenziale, incalcolabile. Il presidente ascoltò con aria attenta sebbene, certamente, ne conoscesse ogni parola.
Poi disse: — Grazie, generale Scanyon. Mi consenta di dire una cosa.
Salì agilmente sul podio e rivolse agli scienziati un sorriso pensoso. — Quando ero un ragazzo, — incominciò, — il mondo era più semplice. Il problema principale era come aiutare le libere nazioni emergenti della Terra ad entrare nella comunità dei paesi civili. Erano i tempi della Cortina di Ferro. C’erano loro, isolati, ingabbiati, in quarantena. E dalla nostra parte c’eravamo tutti noi.
«Bene, — proseguì, — le cose sono cambiate. Il Mondo Libero ha passato brutti momenti. Quando lasciate il nostro continente nordamericano, che cosa trovate? Dittature collettiviste dovunque posiate gli occhi, a parte una o due roccheforti come la Svezia e Israele. E io non sono qui per rivangare la storia antica. Ciò che è fatto è fatto, ed è inutile cercare i responsabili. Sappiamo tutti chi fu a perdere la Cina e a consegnare Cuba all’altra parte. Sappiamo quale amministrazione ha lasciato cadere l’Inghilterra e il Pakistan. È superfluo parlare di queste cose. Dobbiamo invece guardare al futuro.
«Ed io vi dico, signore e signori, — disse di slancio, — che il futuro della libera razza umana è nelle vostre mani. Forse avete subito qualche scacco qui, sul nostro pianeta. Ma è una cosa superata. Possiamo guardare nello spazio. E che cosa vediamo? Vediamo un’altra Terra: il pianeta Marte. Come ha appena detto l’illustre direttore del vostro progetto, generale Scanyon, è un pianeta più grande di quello che ci ha dato i natali, dal punto di vista che conta. E potrà essere nostro.
«È in questo che consiste il futuro della libertà, e tocca a voi assicurarcelo. So che lo farete. So di poter contare su ciascuno di voi.»
Girò intorno lo sguardo pensoso, fissandoci negli occhi, uno ad uno. Il famoso carisma di Dash si fece sentire in tutta la saletta.
Poi il presidente sorrise all’improvviso, disse: — Grazie, — e se ne andò, tra una marea di agenti del Servizio segreto.
CAPITOLO TERZO
L’UOMO CHE DIVENTÒ MARZIANO
C’era stato un tempo in cui il pianeta Marte era sembrato simile a una seconda Terra. L’astronomo Schiaparelli, guardando attraverso il suo telescopio milanese in occasione della famosa congiunzione del 1877, vide certe cose che gli parvero «canali» e li annunciò come «canali»: e metà della popolazione non analfabeta della Terra li prese sul serio. Inclusi gli astronomi, che si affrettarono a puntare i telescopi nella stessa direzione e ne scoprirono altri.
Canali? Quindi dovevano essere stati scavati per uno scopo preciso. Che scopo? Per contenere acqua… non c’erano altre spiegazioni che potessero reggere.
La logica del sillogismo era convincente, e all’inizio del secolo al mondo non ne dubitava quasi più nessuno. Si accettava, come fosse Vangelo, l’idea che Marte ospitasse una civiltà più antica e più sapiente della nostra. Se almeno fossimo riusciti a metterci in comunicazione con essa, quali meraviglie avremmo appreso! Percival Lowell rimuginò davanti a un blocco per disegni e poi propose un primo tentativo. Tracciate enormi figure euclidee nel deserto del Sahara, disse. Bordatele di fascine, oppure scavate delle trincee e riempitele di petrolio. E poi, in una notte senza luna, quando Marte è alto nel cielo africano, appiccate il fuoco. Gli occhi marziani, che secondo Lowell dovevano essere incollati ai telescopi marziani, avrebbero visto. I marziani avrebbero riconosciuto i quadrati e i triangoli. Avrebbero compreso che si trattava di un tentativo di comunicare, e grazie alla loro sapienza così antica avrebbero trovato un mezzo per rispondere.
Non tutti credevano a questo con la stessa incrollabile fermezza di Lowell. Alcuni sostenevano che Marte era troppo piccolo e freddo per aver potuto ospitare una razza immensamente intelligente. Scavare canali? Oh, sì, era abbastanza semplice, e poteva riuscirci anche una cultura contadina; e una razza che moriva di sete poteva certamente scavare fossi, anche fossi enormi visibili al di là degli spazi interplanetari, per restare in vita. Una razza che vivesse lassù doveva essere simile a quella degli eschimesi, prigionieri in eterno sulle soglie della civiltà perché il mondo al di fuori degli igloo era troppo ostile per accordar loro la possibilità di imparare le astrazioni. Senza dubbio, quando i nostri telescopi sarebbero stati dotati di un tale potere di risoluzione da mostrarci la faccia dei singoli marziani, noi avremmo visto solo una maschera animalesca, stolida e intontita, simile al muso dei bovini: esseri capaci di spostare la terra e di coltivarla, sì, ma non di aspirare ad una vita della mente.
Comunque, sapienti o bruti, i marziani c’erano… o almeno così credeva il fior fiore dell’opinione pubblica di quei tempi.