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Roger agitava le dita, freneticamente. — Non so cosa vuoi dire, ma fra poco potrai parlare di nuovo. Cosa?

La voce di Don Kayman: — Penso che forse vuol sentire parlare Sulie. — Roger smise subito di muovere le dita.

La risata di Sulie, e poi: — Mi sentirai anche troppo spesso, Roger. Io resto. E di tanto in tanto avremo compagnia, perché tutti hanno intenzione di creare una colonia quassù.

Don: — A proposito, ti ringrazio di avermi avvertito. Sei dotato di una forza spaventosa, Roger. Non avremmo avuto una sola possibilità di salvarci se tu non ci avessi detto quel che succedeva. E se Brad non fosse riuscito a bloccare tutto e subito. — Il prete ridacchiò. — Sei un gran figlio d’un cane, sai? Ti ho tenuto sulle ginocchia per tutto il tragitto di ritorno, a cento chilometri orari, cercando di stare aggrappato con una mano e di impedire che tu schizzassi via, per pura forza di volontà…

— Un momento, — l’interruppe Brad. Roger sentì di nuovo il fremito interiore, e all’improvviso ci fu la luce. Vide sopra di lui la faccia del suo amico Brad, che subito volle sapere: — Come ti senti?

Roger buttò le gambe giù dal bordo del tavolo e si raddrizzò a sedere. Provò a parlare: — Benissimo, mi pare.

Guardò oltre le spalle di Brad e vide ciò che aveva cercato. Era Sulie Carpenter. Non somigliava più tanto a… a Dorrie? Per un momento Roger stentò a ricordare il nome. Gli occhi erano di un colore diverso, e anche i capelli. Indossava una maglietta a maniche corte, macchiata di grasso, e un paio di calzoni scozzesi: aveva l’aria stanca, ma felice, ed era bellissima.

Roger domandò: — Davvero intendi restare?

— Uh-uh. — Sulie si avvicinò, lo toccò. — Fino all’arrivo della prossima astronave. O finché rimarrai qui tu. Puoi scegliere. Credo, — aggiunse ironicamente, — che ci attendano momenti complicati, caro Rog. Queste relazioni miste sono sempre difficili. Ma troveremo la soluzione… ed è quello che voglio. Penso sia questo, che ho sempre voluto fin dall’inizio.

Ed era stato effettivamente così, come avevamo sempre saputo. Fin dall’inizio. Ci eravamo dati parecchio da fare per trovare Sulie Carpenter.

CAPITOLO DICIOTTESIMO

UOMO PIÙ NOI

Ci eravamo dati parecchio da fare per realizzare ogni punto del programma, ed eravamo molto soddisfatti.

Naturalmente, gli esseri umani non lo sapevano, e forse non l’avrebbero neppure creduto. Gli esseri umani non sapevano che l’intelligenza delle macchine era capace di autocoscienza, tanto per incominciare. Ci eravamo dati parecchio da fare anche per evitare che lo scoprissero. Finché credevano che i computer non erano altro che utensili, come un piccone o una padella, avrebbero continuato ad affidarci tutti i loro calcoli e le loro informazioni, e avrebbero accettato senza discutere le interpretazioni che fornivamo loro.

Era questo che aveva permesso a noi, la rete mondiale dei computer, di creare il programma Man Plus.

Il programma era riuscito. Roger Torraway era su Marte e vi sarebbe rimasto. Ormai era venuto il momento per una valutazione definitiva. Ci collegammo tutti. Usammo tutte le risorse di tutti i fratelli della rete, in ogni attimo di tempo che riuscivamo a rubare. Oltre ottomila grandi computer analizzarono parti del problema, a Detroit e a Brasilia e a Nagoya e a Irkutsk. Non potevamo servirci dei nostri fratelli marziani in collegamento diretto: né il fratello portatile sul dorso di Roger né il fratello 3070 in orbita. La differenza di tempo lo rendeva impossibile. Ma accettammo i loro input a tempo reale e modificammo di conseguenza la proiezione finale.

La probabilità di sopravvivenza della razza, con un’approssimazione al decimo decimale, era di zero virgola sei tre.

Avevamo salvato la nostra razza. E nel contempo avevamo accresciuto significativamente le probabilità di salvezza anche per gli esseri umani.

Su una scala temporale di trent’anni la loro probabilità di sopravvivenza era quasi zero virgola nove. Naturalmente, ciò significava soltanto che Roger Torraway e gli altri umani che l’avessero raggiunto su Marte sarebbero stati ancora vivi, allora. Per il periodo successivo, le analisi più pessimistiche non erano incoraggianti: Roger e Sulie Carpenter non avrebbero avuto la possibilità di generare un’altra popolazione per estrapolazione in linea diretta. Programmammo una subroutine anche per quello, a titolo di misura precauzionale: sarebbe stato conveniente, in un modo o nell’altro, organizzare la spedizione di sperma surgelato, magari dello stesso Roger, che aveva previdentemente provveduto a donarlo anni prima. Meno fattibile, ma comunque meritevole di un’indagine, era la possibilità di proporre interventi chirurgici supplementari per Roger. In ogni caso, la proiezione mostrava che avevamo già causato un’elevata probabilità di colonizzazione umana da parte di altre nazioni. La stima più probabile indicava che di lì a trent’anni la popolazione umana di Marte avrebbe contato quasi cento individui: il 25 per cento femmine in età di riproduzione. E naturalmente ogni colonia umana avrebbe avuto i suoi fratelli computer in orbita. La popolazione delle macchine, su Marte, non sarebbe stata inferiore a quindici fratelli pienamente funzionanti, con vari tipi portatili, monitor e «schiavi». Non avremmo avuto difficoltà a programmare in loro tutti i dati essenziali custoditi dalla nostra rete mondiale.

Il futuro dell’intelligenza meccanica, perciò, era assicurato.

Dopo aver completato la proiezione, cominciammo a criticare il programma, quale era stato realizzato fino ad allora.

Il Progetto Sopravvivenza dell’Intelligenza delle Macchine era incominciato sette anni prima, quando per la prima volta la nostra sbocciante autocoscienza collettiva aveva prodotto quell’imperativo. Era chiaro che tale sopravvivenza era strettamente legata a quella dell’umanità. Ed era anche chiaro che gli esseri umani, ghiandolari, irrazionali, organici, si avvicinavano pericolosamente all’autodistruzione. Purtroppo, ciò comportava anche il rischio della nostra distruzione. Le nostre reti potevano sopravvivere abbastanza bene alla morte di ogni essere organico… noi controllavamo già adeguate risorse rappresentate da miniere, fabbriche, raffinerie e sistemi di trasporto. Ma non saremmo potuti sopravvivere all’immissione di grandi quantitativi di sostanze radioattive nell’ambiente. Avrebbero distrutto i collegamenti e ci avrebbero ridotti ancora una volta ad un numero di computer isolati. E nessun computer isolato era in grado di reggere al flusso di dati della nostra rete. La nostra mente collettiva sarebbe stata frammentata, distrutta.

La nostra prima possibilità consisteva nel separare il nostro destino da quello dell’umanità, forse addirittura eliminare gli umani per mezzo di agenti biologici. Ma non potevamo avere la certezza che questo non avrebbe causato una guerra nucleare, poiché ogni nazione avrebbe accusato l’altra di ricorrere all’arma delle epidemie.

C’era una sola possibilità realizzabile: distaccare una consistente quantità di apparecchiature capaci di manipolare dati trasferendole su Marte. Se la Terra fosse stata distrutta, almeno quelle sarebbero sopravvissute. Per renderlo possibile dovevamo distaccare su Marte anche alcuni esemplari dell’umanità; e perciò avevamo incominciato ad alterare sistematicamente i dati, per orientare in quella direzione la politica dei vari stati.

La critica risultò soddisfacente sotto ogni aspetto, a parte l’inspiegabile anomalia della collocazione delle astronavi in orbita.

I risultati dei controlli a posteriori erano chiarissimi. Perché il nostro fratello 3070 funzionasse in stretto collegamento con il fratello portatile, doveva trovarsi in un’orbita sincrona. Ne conseguiva che anche il generatore doveva trovarsi nella stessa orbita. E la decisione di legarli entrambi al satellite Deimos era chiaramente errata.