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Poi erano stati costruiti telescopi più perfezionati, e si erano scoperti metodi migliori per comprendere ciò che rivelavano. Alla lente e allo specchio si aggiunsero lo spettroscopio e la macchina fotografica. Ogni giorno, Marte si avvicinava un poco di più agli occhi ed alla comprensione degli astronomi. E ad ogni passo, via via che l’immagine del pianeta diveniva più nitida e chiara, la visione dei suoi presunti abitanti diventava più nebulosa, meno reale. L’aria era troppo poca. L’acqua era troppo poca. Faceva troppo freddo. I canali, visti attraverso mezzi dotati di maggior potere risolvente, si frantumarono in chiazze irregolari di rilievi superficiali. Le città che avrebbero dovuto indicare i punti di congiunzione non esistevano.

Al tempo delle prime missioni Mariner la razza marziana, che non era mai vissuta se non nell’immaginazione degli esseri umani, era irrevocabilmente morta.

Sembrava ancora possibile, tuttavia, che esistesse qualche forma di vita, magari piante inferiori, forse addirittura qualche rudimentale specie di anfibi. Ma nulla di simile all’uomo. Sulla superficie di Marte un essere formato d’acqua per una percentuale altissima e creato per respirare l’aria, come un uomo, non sarebbe sopravvissuto neppure un quarto d’ora.

Sarebbe stata la mancanza d’aria ad ucciderlo più rapidamente. La morte non sarebbe stata causata dal semplice soffocamento. L’essere umano non sarebbe vissuto abbastanza a lungo perché questo potesse accadere. Alla pressione di 10 millibar, misurata sulla superficie di Marte, il suo sangue sarebbe evaporato bollendo ed egli sarebbe morto tra sofferenze orribili. Se fosse sopravvissuto a questo, allora sarebbe morto per mancanza dell’aria da respirare. Se fosse riuscito a sopravvivere anche a questo — grazie a bombole d’aria e a una maschera alimentata con un miscuglio di gas non contenenti azoto, e a una pressione intermedia tra quella terrestre e quella marziana — sarebbe morto comunque. Sarebbe morto per l’esposizione alle radiazioni solari non filtrate. Sarebbe morto per i rigori della temperatura marziana, che nella migliore delle ipotesi poteva raggiungere quella di un tepido giorno di primavera e, nella peggiore, poteva essere più tremenda della notte antartica. Sarebbe morto di sete. E se in un modo o nell’altro fosse riuscito a sopravvivere a tutto questo, sarebbe morto lentamente ma inevitabilmente di fame, poiché sull’intera superficie di Marte non vi era un solo boccone che un essere umano potesse mangiare.

Ma c’è un argomento completamente diverso che contraddice le conclusioni tratte dai fatti obiettivi. L’uomo non si lascia inceppare dai fatti obiettivi. Se gli danno fastidio, se l’ostacolano, li cambia o li aggira.

L’uomo non può sopravvivere su Marte. Tuttavia, non può sopravvivere neppure nell’Antartide. Però ci riesce egualmente.

L’uomo sopravvive in luoghi dove, a rigore, dovrebbe morire: e ci riesce portando con sé un ambiente più mite. Porta ciò di cui ha bisogno. La sua prima invenzione, in questo campo, fu rappresentata dagli indumenti. La seconda, la conservazione dei viveri, come la carne secca e il grano secco. La terza fu il fuoco. Quella più recente, l’intera serie di apparecchi e di impianti che gli avevano permesso di raggiungere il fondo marino e lo spazio.

Il primo pianeta alieno su cui l’uomo posò piede fu la Luna. Era ancora più ostile di Marte, in quanto gli elementi vitali che su Marte erano scarsi — acqua, aria e cibo — sulla Luna non esistevano affatto. Eppure, già alla fine degli Anni Sessanta gli uomini visitarono la Luna, portando con sé aria ed acqua e tutto il necessario in sistemi creati per conservare la vita e montati sulle tute spaziali e nei moduli d’allunaggio. A partire da quel momento non fu un grosso problema costruire sistemi dello stesso tipo, ma più grandi. Non fu facile, date le proporzioni. Ma la scalata era continua, e si era giunti a creare colonie semipermanenti, a ciclo chiuso, abbastanza vicine all’autosufficienza. Il primo problema del mantenimento era puramente logistico. Per ogni uomo c’era bisogno di tonnellate di viveri e di scorte; per ogni chilo di carico lanciato nello spazio si spendevano due milioni di dollari di carburante e di materiale. Comunque, era possibile.

Marte è infinitamente più lontano. La Luna gira intorno alla Terra a una distanza inferiore ai quattrocentomila chilometri. Quando Marte ci è vicino, e accade poche volte in un secolo, è oltre cento volte più lontano.

Marte non è solo lontano dalla Terra: è anche più lontano dal Sole di quanto lo sia il nostro pianeta. Mentre la Luna riceve, per ogni centimetro quadrato, la stessa quantità di energia della Terra, Marte, secondo la legge dell’inverso del quadrato, ne riceve soltanto la metà.

Da un punto o dall’altro della Terra, si può sempre inviare un razzo sulla Luna a qualsiasi ora di qualsiasi giorno. Ma Marte e la Terra non ruotano l’uno intorno all’altra: girano entrambi intorno al sole, e lo fanno a velocità tanto diverse che talvolta sono non molto vicini e talvolta sono molto lontani. Solo quando si trovano alle distanze minime è possibile lanciare un razzo dall’uno all’altro, e tali occasioni si presentano una volta sola ogni due anni, per un mese e qualche settimana.

Persino i fattori strutturali che rendono Marte più simile alla Terra sono negativi per l’eventualità di istituirvi una colonia. È più grande della Luna, perciò ha una gravità più vicina a quella terrestre. Ma poiché è più grande e ha una gravità superiore, un razzo ha bisogno di più combustibile per atterrarvi, e di più combustibile per ripartire.

Insomma, tirando le somme, una colonia sulla Luna può venire mantenuta dalla Terra. Con una colonia su Marte, questo non è possibile.

Almeno, non è possibile con una colonia di esseri umani.

Ma… e se si rimodella un essere umano?

Immaginiamo di prendere la struttura umana normale e di alterare alcuni organi opzionali. Su Marte non c’è niente da respirare. Perciò togliamo i polmoni dal corpo umano e sostituiamoli con apparecchi microminiaturizzati per la rigenerazione dell’ossigeno. Per farlo occorre energia, ma l’energia arriva dal sole lontano.

Nell’organismo umano normale, il sangue bollirebbe: benissimo, eliminiamo il sangue, almeno dalle estremità e dalle aree superficiali — costruendo braccia e gambe azionate da motori anziché dai muscoli — e riserviamo l’afflusso del sangue esclusivamente al cervello, protetto e ben caldo. Un corpo umano normale ha bisogno di nutrirsi, ma se i muscoli principali vengono sostituiti da macchine, il fabbisogno alimentare scende. Solo il cervello ha bisogno di essere nutrito ogni minuto del giorno e, per fortuna, come quantità di energia il cervello ha le minori esigenze tra tutti gli accessori umani. Una fetta di pan tostato al giorno basta ad alimentarlo.

L’acqua? Non è più necessaria, se non per le perdite meccaniche: come aggiungere fluido idraulico all’impianto frenante di un’automobile dopo tot migliaia di chilometri. Quando il corpo è diventato un sistema chiuso, non è necessario immettervi acqua nel ciclo ingestione-circolazione-escrezione o traspirazione.

Le radiazioni? Un problema a doppio taglio. Vi sono esplosioni solari a intervalli imprevedibili, e allora persino su Marte sono troppo forti per giovare alla salute: perciò il corpo deve essere protetto da un’epidermide artificiale. Per il resto del tempo, il sole irradia solo la normale luce visibile e ultravioletta. Non è sufficiente per mantenere il calore, e neppure per consentire una buona visibilità: perciò è necessario fornire una superficie più ampia per raccogliere l’energia — ecco spiegati i grandi ricettori a orecchie di pipistrello del cyborg — e per rendere migliore il più possibile la visibilità gli occhi vengono sostituiti da strutture meccaniche.

Se si fa tutto questo ad un essere umano, ciò che resta non è più esattamente un essere umano. È un uomo più parecchi elementi meccanici.

L’uomo è diventato un organismo cibernetico: un cyborg.