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Il primo uomo che venne trasformato in un cyborg fu probabilmente Willy Hartnett. C’è qualche dubbio al riguardo. Si vociferava con insistenza di un esperimento cinocomunista che era riuscito per qualche tempo e poi era fallito. Ma era chiaro che, almeno, Hartnett era l’unico cyborg vivo in quel particolare momento. Era nato nel normale modo umano e aveva avuto normale forma umana per trentasette anni. Solo durante gli ultimi diciotto mesi era cominciato a cambiare.

All’inizio i cambiamenti erano stati di poca importanza, e temporanei.

Il cuore non era stato asportato. Era stato soltanto tagliato fuori, di tanto in tanto, da un veloce propulsore di plastica tenera che Hartnett portava fissato a una spalla, una settimana alla volta.

Neppure gli occhi vennero asportati… allora. Vennero semplicemente chiusi con una sorta di benda gommosa, mentre Hartnett si abituava a riconoscere le forme sconcertanti del mondo, così come gli venivano rivelate da una telecamera elettronica ronzante collegata chirurgicamente ai suoi nervi ottici.

Uno ad uno, vennero collaudati i singoli sistemi che avrebbero fatto di lui un marziano. Solo quando ogni elemento venne collaudato, modificato e approvato furono apportate le prime trasformazioni permanenti.

In realtà, non erano permanenti. Era la promessa cui si aggrappava Hartnett. I chirurghi l’avevano fatta a lui, e lui l’aveva fatta a sua moglie. Tutti i cambiamenti erano reversibili, e sarebbero stati annullati. Al termine della missione, al suo ritorno, i chirurghi avrebbero tolto i meccanismi, li avrebbero sostituiti con normali tessuti, ed egli sarebbe stato restituito alla sua forma puramente umana.

Hartnett sapeva che non avrebbe riavuto esattamente la sua forma iniziale. Non era possibile conservare i suoi organi ed i suoi tessuti. Potevano solo sostituirli con equivalenti. Sarebbero ricorsi ai trapianti degli organi e alla chirurgia plastica per farlo somigliare di nuovo a se stesso: e c’erano scarse probabilità che potesse di nuovo sfruttare la sua vecchia foto sul passaporto.

A Hartnett non dispiaceva troppo. Non si era mai considerato un bell’uomo. Si accontentava di sapere che avrebbe riavuto occhi umani… non i suoi, naturalmente. Ma i dottori gli avevano promesso che sarebbero stati azzurri, avrebbero avuto palpebre e ciglia e, con un po’ di fortuna, pensavano i chirurghi, quegli occhi avrebbero potuto persino piangere. (Di gioia, prevedeva Hartnett.) Il suo cuore sarebbe stato di nuovo un muscolo cavo grosso come un pugno, e avrebbe pompato il rosso sangue umano fino ai capillari degli arti e del corpo. I muscoli dei polmoni avrebbero fatto entrare l’aria nel petto, e lì gli alveoli umani naturali avrebbero assorbito l’ossigeno ed esalato l’anidride carbonica. Le grandi orecchie da pipistrello dei fotoricettori (che causavano tanti fastidi, perché la forza per tenerle erette era in scala con la gravità marziana, ma non con quella terrestre, e perciò era necessario staccarle continuamente e rimandarle in laboratorio) sarebbero state smantellate e tolte. La pelle tanto faticosamente fabbricata ed adattata a lui sarebbe stata altrettanto faticosamente asportata, e sostituita da epidermide umana capace di sudore e dotata di peli. In effetti, la sua pelle c’era ancora, sotto l’aderente rivestimento artificiale, ma Hartnett prevedeva che non sarebbe sopravvissuta all’esperimento. Era stato necessario costringerla a non svolgere più le sue funzioni naturali durante il tempo in cui sarebbe rimasta sepolta sotto la cute artificiale. Quasi sicuramente, al termine dell’esperimento avrebbe perduto completamente la capacità di svolgere quelle funzioni e sarebbe stato indispensabile sostituirla.

La moglie di Hartnett aveva preteso da lui una promessa. Gli aveva fatto giurare che, fino a quando avesse portato il mostruoso mascherone di cyborg, non si sarebbe fatto vedere dai suoi figli. Per fortuna, i figli erano abbastanza piccoli per venire indottrinati, e i maestri, gli amici, i parenti, i genitori dei compagni di scuola e tutti gli altri avevano collaborato, poiché erano state raccontate loro storie di chissà quali malattie cutanee tropicali. C’era stata una discreta curiosità, ma la storia aveva sortito il suo effetto, e nessuno aveva insistito perché il papà di Terry presenziasse a una riunione dei genitori o il marito di Brenda l’accompagnasse a un barbecue in giardino.

Brenda Hartnett aveva cercato di non vedere il marito, ma alla fine la curiosità aveva avuto la meglio sulla paura. Un giorno era stata introdotta di nascosto nella sala della vasca, mentre Willy compiva esercizi di coordinazione, andando in bicicletta sulle sabbie rossastre con una bacinella d’acqua in equilibrio sul manubrio. Don Kayman le era rimasto accanto, prevedendo che svenisse o urlasse o magari vomitasse. Brenda non aveva fatto niente di tutto ciò, sbalordendo se stessa, non soltanto il prete. Il cyborg somigliava troppo a un mostro uscito da un film giapponese dell’orrore perché ella potesse prenderlo sul serio. Soltanto quella notte lei riuscì a collegare veramente quell’essere dalle orecchie di pipistrello e dagli occhi cristallini, intento ad andare in bicicletta, con il padre dei suoi figli. Il giorno dopo si recò dal direttore medico del progetto e gli disse che Willy doveva ormai smaniare dal bisogno di far l’amore con lei, e che era disposta ad accontentarlo. Il dottore dovette spiegarle ciò che Willy non era stato capace di dirle: che nella situazione attuale quelle funzioni erano considerate superflue e perciò erano state, uhm, temporaneamente soppresse.

Intanto il cyborg faticava con i suoi test e aspettava le nuove rate di sofferenza.

Il suo mondo era diviso in tre parti. La prima era un appartamento mantenuto ad una pressione equivalente a quella di circa 2500 metri di altezza, in modo che il personale addetto al progetto potesse entrare e uscire senza risentirne troppo. Hartnett dormiva lì, quando poteva; e lì mangiava quel po’ che gli veniva somministrato. Aveva sempre fame, sempre. Le avevano tentate tutte, ma non erano riusciti a sopprimere gli appetiti dei sensi. La seconda parte era la vasca marziana normale dove faceva ginnastica ed eseguiva i test, in modo che gli architetti del nuovo corpo potessero osservare all’opera la loro creatura. E la terza parte era una camera a bassa pressione, montata su ruote, che lo portava dall’appartamento privato all’arena pubblica dei test, o negli altri posti dove, molto raramente, gli accadeva di dover andare.

La vasca marziana normale era una specie di gabbia dello zoo, entro la quale era perennemente in mostra. La vasca a ruote non gli offriva altro che l’attesa di venir trascinato da una parte o dall’altra.

Solo il piccolo appartamento di due stanze che era ufficialmente casa sua gli dava un certo conforto. Lì c’era il televisore, lo stereo, il telefono, i suoi libri. Qualche volta uno degli studenti laureati o un collega astronauta lo andava a trovare, e giocava a scacchi con lui o cercava di far conversazione, ansimando disperatamente e con i polmoni che pompavano a fatica in quella pressione corrispondente a 2500 metri di quota. Hartnett attendeva con ansia quelle visite, e cercava sempre di prolungarle. Quando con lui non c’era nessuno, doveva arrangiarsi da solo. Leggeva raramente. Qualche volta guardava la televisione, senza badare molto a quello che veniva trasmesso. Di solito «riposava». Era così che lo spiegava ai supervisori: intendeva stare seduto o sdraiato con l’impianto visivo in «stand-by», in «attesa». Era come tenere gli occhi chiusi restando svegli. Una luce abbastanza forte gli arrivava ai sensi, come avviene anche attraverso le palpebre chiuse di un dormiente; e un suono penetrava subito. In quelle occasioni la sua mente turbinava, evocando pensieri di sesso, cibo, gelosia, sesso, collera, figli, nostalgia, amore… Alla fine dichiarò che non resisteva più, e allora fu sottoposto a un corso di autoipnosi che gli insegnò a svuotare la propria mente. In seguito, quando «riposava» non faceva quasi nulla consciamente, mentre il suo sistema nervoso si assestava e si preparava alle prossime sensazioni di dolore, e il suo cervello contava i secondi che lo separavano dal momento in cui la sua missione sarebbe terminata ed egli avrebbe riavuto il suo normale corpo umano.