Quei secondi erano molti. Li aveva moltiplicati tra sé e sé tante volte. Sette mesi in orbita verso Marte. Sette mesi per il volo di ritorno. Alcune settimane alla partenza e all’arrivo, a prepararsi per il lancio e poi a sbrigare le solite formalità prima che incominciassero a restituirgli il suo corpo. Alcuni mesi — nessuno sapeva dirgli quanti, esattamente — per gli interventi chirurgici e perché gli organi sostituiti attecchissero.
Il numero dei secondi, secondo i suoi calcoli approssimativi, era di circa quarantacinque milioni, dieci milioni in più o in meno. A Hartnett sembrava che ognuno di quei secondi arrivasse, indugiasse e scivolasse via con riluttanza.
Gli psicologi avevano tentato di evitare tutto ciò pianificandogli ogni momento. Hartnett aveva rifiutato i piani. Avevano cercato di comprenderlo, per mezzo di test ingegnosi e di esami del comportamento. Hartnett aveva lasciato che curiosassero; ma conservava dentro se stesso una cittadella d’intimità che non lasciava invadere da nessuno. Non si era mai considerato un uomo portato all’introspezione: sapeva di avere uno scarso spessore, di avere una vita senza grande interesse. Gli stava bene così. Ma ora che di suo gli restava soltanto l’interno della sua mente, la difendeva.
Talvolta avrebbe desiderato conoscere un modo per esaminare la propria vita. Avrebbe desiderato comprendere le ragioni che lo spingevano a fare ciò che faceva.
Perché si era offerto volontario per la missione? Talvolta si sforzava di ricordarlo, e poi ammetteva di non averlo mai saputo. Forse perché il mondo libero aveva bisogno dello spazio vitale marziano? Perché aspirava alla gloria di essere il primo marziano? Per il danaro? Per le borse di studio e le preferenze che avrebbe assicurato ai suoi figli? Per indurre Brenda ad amarlo?
Probabilmente si trattava di una di quelle ragioni, ma Hartnett non riusciva a ricordare: ammesso che lo avesse saputo.
Comunque, ormai era impegnato. L’unica cosa di cui era sicuro era che adesso non poteva tirarsi indietro.
Avrebbe lasciato che sottoponessero il suo corpo a tutte le sadiche torture che volevano. Sarebbe salito a bordo dell’astronave che l’avrebbe portato su Marte. Avrebbe sopportato i sette mesi interminabili in orbita. Sarebbe sceso sulla superficie, avrebbe esplorato, preso possesso del pianeta in nome del suo governo, avrebbe raccolto campioni, fatto fotografie ed analisi. Poi si sarebbe staccato di nuovo dalla superficie marziana e in un modo o nell’altro sarebbe sopravvissuto ai sette mesi del volo di ritorno, e avrebbe dato loro tutte le informazioni che volevano. Avrebbe accettato le medaglie e gli applausi e i giri di conferenze e le interviste televisive ed i contratti per libri scritti da lui.
E poi si sarebbe presentato ai chirurghi perché lo facessero tornare come doveva essere.
Era deciso a fare tutte queste cose, ed era sicuro di poterle realizzare tutte.
C’era soltanto un problema, nella sua mente, per il quale non aveva ancora trovato una soluzione. Riguardava una situazione che non era pronto ad affrontare. Quando si era offerto come volontario per il programma, gli avevano detto molto francamente e onestamente che i problemi medici erano complessi e non perfettamente conosciuti. Avrebbero dovuto imparare a risolverne alcuni servendosi proprio di lui. Era possibile che certe soluzioni fossero difficili da reperire, oppure fossero errate. Era possibile che restituirlo alla sua forma normale fosse, beh, difficile. Questo glielo avevano detto molto chiaramente, il primo momento, e poi non glielo avevano ripetuto mai più.
Ma Hartnett ricordava. Il problema che non aveva risolto era questo: che cosa avrebbe fatto se. per una ragione qualsiasi, al termine della missione, non fossero stati in grado di rimetterlo subito in sesto? Non sapeva decidere se si sarebbe semplicemente ucciso o se avrebbe cercato di uccidere, oltre a se stesso, il maggior numero possibile di amici, superiori e colleglli.
CAPITOLO QUARTO
GRUPPO DEI PROBABILI PORTATORI DELLA BARA
Roger Torraway, Colonnello (in congedo) delle Forze Aeree degli Stati Uniti, diplomato in lettere, dottore in lettere, dottore in scienze (honoris causa). Quando si svegliò, quel mattino, quelli del turno di notte finivano di controllare con una prova al banco i fotoricettori del cyborg. I monitor avevano segnalato una caduta di voltaggio non identificata, quando i fotoricettori erano stati usati l’ultima volta addosso al cyborg, ma dalla prova al banco non risultava niente, e quando li smontarono non scoprirono nulla. I fotoricettori vennero dichiarati in perfetto stato.
Roger aveva dormito male. Era una responsabilità terribile, essere il custode dell’ultima, sparuta speranza di libertà e di onestà per la razza umana. Si svegliava con quel pensiero in mente; c’era una parte di Roger Torraway, che si rivelava abitualmente nei sogni, e che aveva all’incirca nove anni. Accettava alla lettera tutto ciò che aveva detto il presidente, sebbene Roger, che aveva un’esperienza di diplomatico e di capo missione, aveva viaggiato in tutto il mondo e conosceva bene una dozzina di capitali, non fosse veramente convinto dell’esistenza del «Mondo Libero».
Si vestì, impegnato come al solito a risolvere una dicotomia. Presumiamo che il presidente Dash sia sincero, e che occupare Marte significhi salvare l’umanità, pensò. Ce la faremo? Pensò a Willy Hartnett… un bell’uomo (almeno prima di finire preda dei protesiologi). Amabile. Bravissimo a fare un po’ di tutto. Ma anche un po’ leggero, a ben guardare. Il tipo capace di bere un bicchiere di troppo al club, il sabato sera. E se partecipava a una festa, non c’era da fidarsi a lasciarlo in cucina con la moglie di un altro.
Non era un eroe, secondo nessuno dei parametri che Roger riusciva a escogitare. Ma chi era? Riesaminò mentalmente l’elenco delle riserve del cyborg. Il Numero Uno, Vic Freihart, attualmente impegnato in un giro di cerimonie ufficiali in compagnia del vicepresidente e temporaneamente sottratto all’ordine di successione. Il Numero Due, Carl Mazzini, in permesso per malattia, in attesa della guarigione della gamba che si era rotta a Mount Snow. Il Numero Tre: lui.
Nessuno di loro aveva le qualità di un Washington.
Fece colazione senza svegliare Dorrie, tirò fuori la macchina e la lasciò in moto mentre ritirava il giornale del mattino, lo gettava dentro al garage e chiudeva la porta. Il suo vicino, che era diretto verso il garage, lo salutò. — Visto la notizia, stamattina? Dash era in città, ieri sera. Una conferenza ad alto livello.
Roger rispose, automaticamente: — No, stamattina non ho acceso la televisione. — Io ho visto Dash, pensò, e potrei toglierti tutte le arie. Gli dispiaceva non poterlo dire. Le norme di sicurezza erano una maledetta scocciatura. Almeno una buona metà dei suoi recenti guai con Dorrie, ne era sicuro, derivava dal fatto che nelle riunioni mattutine e negli incontri tra le mogli del vicinato, lei poteva dire soltanto che suo marito era un’astronauta non più in attività, passato al lavoro amministrativo. Persino sui suoi viaggi all’estero era necessario mettere la sordina: «è fuori città», «viaggio d’affari»… tutto, tranne: «Beh, mio marito s’incontra con i Capi di Stato Maggiore delle Forze Aeree del Basutoland, questa settimana.» Dorrie aveva resistito. Resisteva ancora, o almeno se ne lagnava con Roger abbastanza spesso. Ma, a quanto ne sapeva lui, non aveva violato le norme di sicurezza. Poiché era noto che almeno tre delle mogli facevano regolarmente rapporto all’ufficiale del servizio di controspionaggio dei Laboratori, indubbiamente lui sarebbe venuto a saperlo.
Mentre saliva in macchina, Roger ricordò che non aveva dato un bacio a Dorrie.
Si disse che non aveva importanza: tanto, lei non si sarebbe svegliata e perciò non l’avrebbe saputo; e se per caso si fosse svegliata, avrebbe protestato perché lui l’aveva destata. Ma gli dispiaceva rinunciare a un rito. Tuttavia, mentre ci pensava, innestò automaticamente la marcia e formò il numero in codice del Laboratorio. La macchina si mosse. Roger sospirò, accese il televisore e guardò il Today Show fino a quando arrivò al lavoro.