Che roba nebulosa! Ci siamo rotti la testa per ore e ore, Ned ha applicato tutta la sua abilità da gesuita; ma ne abbiamo cavato un significato solo, orribile, quello più ovvio. Bisogna che ci sia un volontario per il suicidio. E due dei tre superstiti devono uccidere il terzo. Queste sono le condizioni.
Ma occorre prenderle alla lettera? Forse è tutta una metafora. Forse è necessario interpretarle in chiave simbolica. Per esempio: uno dei quattro deve offrirsi spontaneamente di rinunciare alla cerimonia, e si ritira rimanendo mortale; allora due degli altri devono coalizzarsi contro il terzo e costringerlo ad abbandonare il tempio. Potrebbe essere così?
Eli è convinto che si tratti di morte vera e propria. Naturalmente lui interpreta alla lettera questo misticismo; prende molto sul serio le cose irrazionali della vita e non ha l’aria di dare gran peso a quelle razionali. Ned, che non prende niente sul serio, è d’accordo con Eli. Non credo che Ned abbia molta fede nel Libro dei Teschi, ma la sua posizione è che — sempre che ci sia qualcosa di vero in tutta la faccenda — il Nono Mistero deve essere interpretato nel senso che si esigono due morti.
Anche Timothy non prende nulla sul serio, benché la sua tendenza a ridere in faccia al mondo intero sia diversa da quella di Ned. Ned è un cinico e sa di esserlo; Timothy, semplicemente, se ne sbatte di tutto. Per Ned si tratta di un atteggiamento intenzionalmente diabolico, mentre per Timothy è questione di appartenere a una famiglia troppo ricca. Perciò Timothy non si preoccupa più che tanto per il Nono Mistero: per lui non è che sterco di vacca, come il resto del Libro dei Teschi.
E Oliver?
Oliver non sa. Certo, ho fede nel Libro dei Teschi, per cui credo di accettare anch’io l’interpretazione letterale del Nono Mistero. Ma il fatto è che mi sono imbarcato in questa storia allo scopo di vivere, non di morire; di conseguenza non ho riflettuto molto sulle mie probabilità di sconfitta. Supponendo che il Nono Mistero sia quello che pensiamo, chi saranno le vittime?
Ned ha già fatto sapere che a lui non interessa molto vivere o morire: il febbraio scorso, una sera che era un po’ brillo ha tenuto un discorso di due ore sul contenuto estetico del suicidio. Rosso in faccia, sudato e ansimante, con le braccia che svolazzavano qui e là, sembrava uno di quegli oratori improvvisati di Hyde Park.
Okay, facciamo pure la debita tara e concludiamo che le sue chiacchiere sulla morte sono per nove decimi un atteggiamento romantico: ciò lo lascia comunque il candidato principale all’uscita volontaria. E la vittima coatta? Eli, naturalmente. Non potrei certo essere io: io sono un osso duro, finirei col portare con me almeno uno di quei bastardi, e loro lo sanno bene. E Timothy è come una montagna, non lo si potrebbe uccidere neanche a martellate. Viceversa, Timothy e io potremmo far fuori Eli in due secondi o anche meno.
Cristo, come detesto questo genere di riflessioni!
Io non voglio uccidere nessuno. Non voglio che qualcuno muoia. Voglio solo continuare a vivere, e più a lungo possibile.
Ma se le condizioni sono queste? Se il prezzo di una vita è un’altra vita?
Cristo, cristo, cristo…
11
Eli
Arriviamo a Chicago all’imbrunire, dopo una lunga giornata di viaggio. Novanta-cento chilometri all’ora, ore e ore interrotte soltanto da rare soste. Nelle ultime quattro ore non ci siamo fermati neppure una volta: Oliver divorava i chilometri, incollato al volante come un matto.
Gambe incrampite. Sedere indolenzito. Occhi vitrei. Il mio cervello ha le ragnatele, imbesuito com’è dal troppo viaggiare. Ipnosi da autostrada.
Mentre il sole tramonta, sembra che tutti i colori abbandonino il mondo: una patina azzurrogrigia sommerge ogni cosa — cielo, campi, asfalto — e le mille sfumature dell’iride scivolano verso l’ultravioletto. È un po’ come trovarsi sull’oceano, incapaci di discernere quanto sta sopra l’orizzonte da quanto sta sotto. Questa notte ho dormito ben poco. Non più di due ore, ma probabilmente molto meno. Quando non eravamo occupati a parlare o a fare l’amore, giacevamo a fianco a fianco in un torpido dormiveglia.
Mickey! Ah, Mickey! Ho ancora sui polpastrelli l’odore di te. Me ne riempio le narici. Tre ne abbiamo fatte, da mezzanotte all’alba! Com’eri intimidita all’inizio, in quella piccola camera da letto il cui intonaco verdolino si staccava a scaglie, con le pareti ricoperte di manifesti psichedelici, mentre ci spogliavamo sotto gli occhi di John Lennon e di Yoko dalle guance cascanti, e poi ti sei stretta tutta nelle spalle cercando di nascondere il petto ai miei occhi e sei scivolata in fretta sotto il riparo delle lenzuola… Perché? Giudichi il tuo corpo così pieno di manchevolezze? D’accordo, sei un po’ secchina, hai i gomiti appuntiti, i seni minuscoli. Non sei una Venere. Hai forse bisogno di esserlo? Sono un Apollo, io? Almeno tu non ti ritrai al mio tocco.
Mi chiedo se sei arrivata all’orgasmo. È una cosa che non riesco mai a stabilire. Dove sono le immense esplosioni di piacere di cui ho letto, accompagnate da sospiri e gemiti e gridolini? Altre ragazze, suppongo. Le mie sono troppo compassate per abbandonarsi a scomposte manifestazioni vulcaniche.
Dovrei farmi monaco. Lasciare le scopate a chi sa scopare, e incanalare le mie energie nella ricerca dei valori elevati. Origene mi sia d’esempio: in un momento d’esaltazione, mi praticherò l’orchidectomia e deporrò sul sacro altare, come un’offerta, i miei testicoli. Dopodiché la passione non mi distrarrà più.
Ahimè, no, mi piace troppo. Concedimi la castità, Signore; ma, ti prego, non subito.
Ho il numero di Mickey. Quando tornerò dall’Arizona le telefonerò. (Quando tornerò? Se tornerò! E quando e se, che cosa sarò divenuto?). Mickey è il tipo giusto per me. A me si addicono mete sessuali modeste. Non fanno per me le bombe al platino, le ragazze alla moda, le disinvolte, le esperte. Per me ci vogliono quelle insignificanti, timide ma dolci. La LuAnn di Oliver mi lascerebbe freddo dopo quindici secondi anche se penso che potrei sopportarla almeno una volta grazie ai seni prosperosi. E la Margo di Timothy? Non parliamo di Margo, d’accordo?
A me va bene Mickey. Mickey: intelligente, pallida, ritrosa, accessibile. Adesso è lontana milletrecento chilometri. Chissà cosa sta raccontando, di me, alle sue amiche. Ingrandisca pure i miei meriti. Mi circondi pure di un alone romantico. Saprò farne buon uso.
Eccoci dunque a Chicago. Perché Chicago? Non è un pochino fuori strada, rispetto al percorso New York-Phoenix? Se qui ci fosse il mare avrei calcolato una rotta in diagonale, passante da Pittsburgh e Cincinnati; ma forse le autostrade più veloci non seguono una linea retta, e in ogni caso siamo venuti a Chicago per espressa volontà di Timothy.
Timothy ci fa una passione, per Chicago. È cresciuto qui; o almeno, la parte di adolescenza che non ha trascorso nella tenuta paterna, in Pennsylvania, l’ha passata nell’attico materno, sul lungolago.
Ci sono forse degli episcopali che non divorziano ogni sedici anni? Ce n’è che non abbiano come minimo due paia di genitori? Io leggo sempre la cronaca matrimoniale nei giornali della domenica. «La signorina Rowan Demarest Hemple, figlia della signora Charles Holt Wilmerding di Grosse Pointe (Michigan), e il signor Dayton Belknap Hemple di Bedford Hills (New York) e di Montego Bay (Giamaica) si sono uniti in matrimonio questo pomeriggio nella cappella episcopale di Tutti i Santi. Ha officiato il reverendo Forrester Chiswell Birdsall IV, figlio della signora Elliott Moulton Peck di Bar Harbor (Maine) e del signor Forrester Chiswell Birdsall III di East Islip (Long Island)». Et cetera ad infinitum.