Chissà che conclave, un matrimonio del genere, con tutte quelle coppie multiple riunite per festeggiare, ciascuno cugino di ciascun altro e tutti sposati due o tre volte a testa. Nomi (tripli nomi) consacrati dal tempo, ragazze che si chiamano Rowan e Choate e Palmer, ragazzi che si chiamano Amory e McGeorge e Harcourt. Io sono cresciuto con ragazze di nome Barbara e Louise e Claire, con ragazzi di nome Mike e Dick e Sheldon. Appartengono proprio a un mondo diverso, questi aristocratici episcopali!
E il divorzio! La madre (signora X. Y. Z.) abita a Chicago, il padre (signor A. B. C. III) appena fuori Filadelfia. I miei genitori, che in agosto festeggeranno il trentesimo anniversario, li ho sempre sentiti urlare per tutta la mia infanzia: divorzio, divorzio, divorzio, ne ho abbastanza, me ne vado e non torno più! La normale incompatibilità della borghesia. Ma divorziare davvero? Andare dall’avvocato? Mio padre si farebbe ricucire il prepuzio, piuttosto. Mia madre se ne andrebbe in giro nuda. Certo, in ogni famiglia ebrea c’è una zia che ha divorziato tanto tempo fa: ma non se ne parla mai. (Capita sempre di scoprirlo quando si origlia la conversazione di parenti più anziani che hanno alzato il gomito e stanno rivangando il passato). Comunque nessuna ha figli. Fra noi non ci sono mai queste congerie di genitori, che danno luogo a complicazioni tipo: ti presento mia madre e suo marito, ti presento mio padre e sua moglie.
Mentre eravamo a Chicago, Timothy non è andato a trovare sua madre. Stavamo non molto a sud di lei, in un motel di fronte al lago (ha pagato Timothy, con la sua carta di credito); ma non le ha neppure telefonato. I teneri e profondi legami tra i membri delle famiglie goyishe, certo. Invece ci ha fatto fare un giro notturno della città, comportandosi in parte come se ne fosse il proprietario unico e in parte come se facesse la guida turistica. Qui abbiamo le torri gemelle di Marina City, qui abbiamo il palazzo John Hancock, questa è l’Accademia di Belle Arti, questi sono i celeberrimi negozi di Madison Avenue.
Sono rimasto veramente impressionato, io che non mi ero mai spinto più a ovest di Parsippany (New Jersey) e che tuttavia mi ero fatto un’immagine chiara e vivida della presumibile natura dell’immensa zona centrale degli Stati Uniti. Mi aspettavo che Chicago fosse sporca e affollata, l’apice dello squallore centroccidentale, con edifici di mattoni rossi e a sette piani, risalenti al diciannovesimo secolo, e una popolazione costituita completamente da operai polacchi e ungheresi e irlandesi, in tuta da lavoro dal primo all’ultimo. E invece è una città di ampi viali e grattacieli luccicanti. L’architettura è sbalorditiva: a New York non c’è nulla che le stia alla pari. Naturalmente siamo rimasti vicino al lago. Spingiti di cinque isolati all’interno, mi ha assicurato Ned, e troverai tutto lo squallore che vuoi.
La sottile striscia di Chicago che abbiamo visitato era un paese delle meraviglie. Timothy ci ha portati a mangiare nel suo prediletto ristorante francese, che sta di fronte a una bizzarra costruzione antica chiamata Torre dell’Acqua.
Ho riscontrato ancora una volta la verità della massima di Fitzgerald sui miliardari: sono davvero diversi da te e me. Io conosco i ristoranti francesi così come potrei conoscere quelli tibetani o marziani. I miei genitori non mi hanno mai portato al Pavillon o allo Chambord per festeggiare qualcosa; siamo andati al Binario d’Ottone quando ho preso il diploma del liceo, da Schrafft quando ho vinto la borsa di studio, poco meno di dodici dollari in tre, e mi sono sempre ritenuto fortunato per questo. Le rare volte che vado a mangiare con una ragazza, la cucina rimane necessariamente a livello pizza o «kung po chi ding».
Il menù del ristorante di Timothy (una cosa davvero stravagante: stampa in oro su fogli di pergamena un po’ più grandi del Times) era per me un mistero. Ma ecco Timothy, il mio caro compagno di corso e di stanza, farsi abilmente strada fra quegli arcani e suggerirci di assaggiare le quenelles aux huître, le crêpes farcies et roulées, le escalopes de veau à l’estragon, i tournedos sautés chasseur, l’homard à l’americane. Oliver, naturalmente, era in alto mare quanto me; ma sono rimasto assai sorpreso vedendo che Ned, di estrazione piccolo-borghese non molto diversa dalla mia, era bene informato e si metteva a discutere con Timothy, da competente, sulle rispettive virtù del gratin de ris de veau, dei rognons de veau à la bordolaise, del caneton aux cerises, della suprême de volaille aux champignons. (L’estate in cui ha compiuto sedici anni, ha spiegato poi, è stato l’amasio di un famoso buongustaio di Southampton).
Per me era decisamente impossibile raccapezzarmi in quel menù, e allora Ned mi ha scelto una cena, mentre Timothy faceva altrettanto con Oliver. Rammento ostriche, zuppa di tartarughe, vino bianco seguito da vino rosso, un fantastico qualcosa d’agnello, patate fatte principalmente di aria, cavolfiori in una densa salsa gialla. Da ultimo, cognac per tutti. Legioni di camerieri aleggiavano intorno a noi, premurosi come se fossimo stati banchieri in baldoria anziché universitari malvestiti. Ho intravisto con la coda dell’occhio il conto, e sono rimasto esterrefatto: 112 dollari, servizio escluso. Con un gesto da gran signore, Timothy ha esibito la sua carta di credito.
Io ho avuto un attacco di febbre, di vertigine, d’indigestione; ho creduto di essere sul punto di vomitare sulla tavola, in mezzo ai candelieri di cristalli, ai parati di stoffa rossa, alle raffinate tovaglie. Poi lo spasmo è passato senza incidenti; una volta fuori mi sono sentito meglio, benché ancora un po’ scombussolato. Ho preso un appunto mentale di dedicare quaranta o cinquant’anni della mia immortalità a un serio studio dell’arte culinaria.
Timothy ha suggerito di proseguire la serata nelle eleganti sale da tè situate più a nord, ma noialtri eravamo stanchi e abbiamo bocciato la proposta. Siamo tornati al moteclass="underline" quasi un’ora a piedi, in un freddo tagliente.
Avevamo preso un appartamento di due stanze, una per Ned e me e l’altra per Timothy e Oliver. Io tiro giù i vestiti e mi sbatto a letto. Sonno insufficiente, pasto eccessivo: orribile, orribile. Esausto com’ero, sono rimasto più o meno sveglio, in uno stato di torpore malsano. La cena sovrabbondante mi pesava sullo stomaco come una massa di pietre. L’unica soluzione, decido qualche ora dopo, è un bell’emetico. Appena comincio ad avvertirne l’effetto mi dirigo, nudo e barcollante, alla stanza da bagno che divide le nostre due camere. E nel corridoio m’imbatto in un’apparizione terrificante.
Una ragazza nuda, più alta di me, con seni lunghi e pesanti, fianchi straordinariamente larghi, un’aureola di capelli bruni, corti e riccioluti.
Una larva notturna! Uno spettro uscito dalla mia fantasia sovreccitata!
— Ciao, bello! — mi dice la ragazza, facendomi l’occhiolino; e passa oltre, in un alone di profumo e di odor di lussuria. Io rimango lì attonito a contemplare quelle natiche opulente, finché la porta del bagno si chiude dietro di loro.
Rabbrividisco di spavento. Neppure con la droga ho avuto allucinazioni così tangibili: che un’indigestione mi faccia più effetto dell’LSD? Com’era bella, carnosa, elegante!
Sento scorrere l’acqua nel gabinetto. Allungo una sbirciatina nell’altra camera: adesso la vista mi si è completamente adattata nel buio. Costosi indumenti femminili sparsi dappertutto. Timothy russa in un letto; nell’altro, Oliver, e accanto alla sua testa una donna.