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Niente allucinazioni, allora! Ma dove avranno trovato queste ragazze? Nella camera successiva? No. Capisco. Prostitute fornite dalla direzione. La fida carta di credito ha funzionato ancora. Timothy capisce il sistema di vita americano come io — diligente ma imbranato ragazzo del ghetto — non potrò mai sperare di capire. Vuoi una donna? Basta prendere il telefono e chiederla.

Ho la gola secca, il pennone si è alzato, mi sento tuonare il cuore in petto. Timothy dorme: benissimo. Visto che la ragazza è stata ingaggiata per tutta la notte, me la prenderò in prestito per un po’. Appena esce dal bagno le vado incontro con baldanza, le metto una mano sulle tette e una sulle chiappe, palpo la sua levigatezza serica, la invito a venire nel mio letto. Proprio così.

E in quel momento si apre la porta del bagno. Lei avanza, con le mammelle che ballonzolano. Din, don, din, don. Un’altra strizzatina. Oltrepassatomi, scompare. La sua schiena lunga e asciutta, che si rigonfia in due natiche sorprendentemente sferoidali; l’olezzo di essenza di muschio a buon mercato; l’andatura sciolta ancheggiante; la porta della camera da letto che mi si chiude in faccia. La ragazza è stata ingaggiata, ma non per me. È per Timothy.

Io mi chiudo in bagno, m’inginocchio davanti al cesso, trascorro un’eternità a vomitare. E poi via, nel mio letto vuoto.

Stamattina, nessuna ragazza in vista. Prima delle nove eravamo già in viaggio, Oliver al volante, prossima tappa, St. Louis.

Io me ne stavo sprofondato in una tetraggine apocalìttica. Se avessi avuto il pollice sul pulsante giusto avrei distrutto chissà quanti imperi. Avrei sguinzagliato il dottor Stranamore. Avrei messo in libertà il mitico lupo Fenris. Avrei fatto scomparire l’universo intero, se ne avessi avuto la possibilità.

12

Oliver

Sono cinque ore che guido senza sosta. È magnifico. Loro volevano fermarsi ogni momento per fare una pisciata, per sgranchire le gambe, per comprare un panino, per fare questo, per fare quello; ma io non gli davo neanche retta, continuavo a guidare e basta. Il piede incollato all’acceleratore, le dita posate con leggerezza sul volante, la schiena perfettamente diritta, la testa immobile, gli occhi fissi su un punto otto o dieci metri davanti al parabrezza. Mi sentivo possedere dal ritmo del movimento. C’era un che di erotico: la lunga auto lustra che avanzava a violentare l’autostrada, e io al comando. Ne ho ricavato un vero e proprio godimento. Ho avuto anche un’erezione, per un po’.

Ieri sera, con quelle prostitute rimediate da Timothy, la mia partecipazione non è stata che superficiale. Certo, ne ho fatte tre: ma solo perché la mia parsimonia da contadino mi ha suggerito che era doveroso, affinché il denaro di Timothy non andasse sprecato. La ragazza mi ripeteva: — E adesso ne vuoi fare un’altra, tesoro?

E invece qui in auto, con la robusta e interminabile spinta dei pistoni… in pratica è una specie di rapporto sessuale, è un’estasi di piacere. Adesso credo di capire che cosa provano i patiti della moto. Avanti e avanti e avanti, con quella vibrazione sotto il corpo.

Abbiamo preso la Statale 66: Joliet, Bloomington, e via verso Springfield. Non molto traffico, di quando in quando una fila di camion, ma a parte questo quasi niente; e i pali del telefono che mi venivano incontro in continuazione e flic-flic-flic svanivano dietro di me. Un chilometro e mezzo al minuto, quattrocentocinquanta chilometri in cinque ore: una media eccellente anche per me. Campi piatti e spogli, alcuni ancora coperti di neve.

Proteste dal loggione: Eli che mi definiva una maledetta macchina per guidare la macchina, Ned che m’implorava di fermarmi. Io ho fatto finta di non aver udito, e alla fine mi hanno lasciato in pace. Timothy ha dormito per la maggior parte del tempo. Io ero il re della strada.

A mezzogiorno si è visto che saremmo arrivati a St. Louis in un altro paio d’ore. Il programma era di passare lì la notte, il che ormai non aveva più senso; e quando Timothy si è svegliato ha tirato fuori le sue carte stradali e guide turistiche e si è messo a calcolare la nuova tappa. Lui e Eli hanno bisticciato sul modo in cui Timothy aveva progettato il viaggio. Io non ho prestato molta attenzione. Credo che il punto di vista di Eli fosse che uscendo da Chicago avremmo dovuto dirigere a Kansas City e non a St. Louis. Io l’avrei ben potuto dire anche prima, ma non m’interessava quale rotta avrebbero scelto e non avevo un desiderio particolare di rivedere il Kansas. Timothy non si era reso conto, quando aveva buttato giù il programma di viaggio, che Chicago e St. Louis sono così vicine.

Ho cessato di badare al bisticcio e mi sono messo a riflettere su una cosa che ha detto Eli ieri sera mentre giravamo per Chicago. Loro tre andavano troppo piano per i miei gusti; allora io ho cercato di stimolarli un po’, e Eli ha ribattuto: — Tu vuoi proprio divorarti questa città, non è vero? Come i turisti che "si fanno Parigi" in un giorno o due.

— A Chicago non ci sono mai stato — ho replicato io — perciò voglio vederne più che posso.

— Bravo, bravo — ha detto lui. Ma io volevo sapere perché fosse così sorpreso per il mio desiderio di esplorare le città che non conosco. È apparso a disagio, e ansioso di cambiare argomento. Io ho insistito; infine lui ha detto, con quella risatina che usa per mettere in chiaro che sta per dire una cosa dal contenuto implicitamente offensivo ma che non bisogna prenderlo sul serio: — Be’, mi chiedevo perché una persona che sembra così normale, così equilibrata, abbia un desiderio così forte di visitare una città.

Poi si è spiegato, a malincuore. La sete di esperienza, la ricerca del sapere, l’impulso di andare a vedere cosa c’è dall’altra parte delle montagne, per lui sono caratteristiche che appartengono principalmente a chi è derelitto in un modo o nell’altro: membri di gruppi minoritari, persone con difetti fisici, gente afflitta da ostracismo sociale, eccetera. A regola, un bel marcantonio come me non dovrebbe avere le nevrosi che generano la curiosità intellettuale; dovrebbe invece essere un tipo placido che non si scalda mai, come Timothy. Insomma, la bramosia di cui avevo dato prova non si accorda col concetto che si è fatto Eli di quello che dovrebbe essere il mio carattere.

Dato che Eli è così esperto in etnologia comparata, mi aspettavo di sentirlo dire che il desiderio di apprendere è un tratto fondamentale della sua razza, con qualche degna eccezione. Ma non ha pronunciato niente del genere, benché probabilmente lo stesse pensando. Allora mi sono chiesto (e mi chiedo tuttora) perché mi ritiene così ben equilibrato. Bisogna forse essere alti uno e sessanta, magari con una spalla un po’ più bassa dell’altra, per avere le fissazioni e gli impulsi che lui equipara all’intelligenza? Eli mi sottovaluta. Mi ha etichettato come goy grosso, bello, e tonto. Mi piacerebbe che guardasse per cinque minuti nel mio cranio di «gentile».

Ed eccoci finalmente in vista di St. Louis. Arrivando da una superstrada interstatale deserta, tagliata attraverso l’aperta campagna, ci troviamo dapprima in un rione lugubre e squallido che si chiama St. Louis Est; poi scorgiamo la città grande che occhieggia dall’altra parte del fiume.

L’idea di attraversare il Mississippi lascia Eli completamente attonito: sporge testa e spalle dal finestrino, guardando giù come se stessimo varcando il Giordano. Giunti nella St. Louis vera e propria, blocco l’auto davanti a un motel di forma circolare, tutto lustro.

Loro tre schizzano fuori e si mettono a saltellare intorno come matti. Io rimango al mio posto, col cervello ancora in subbuglio. Cinque ore di guida ininterrotta. Che estasi! Infine mi alzo. Ho la gamba destra intorpidita, e per un po’ sono costretto a zoppicare. Ma è uno scotto da nulla a confronto di quelle cinque splendide ore, in privato, da solo con l’auto e la strada. Mi dispiace proprio che siano finite.