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Ned

Una serata fredda. Spossatezza, anossia, nausea: il risultato di un viaggio troppo lungo in automobile. Quel che è troppo è troppo; e ci fermiamo. Quattro automi con gli occhi venati di rosso escono barcollando dalla vettura.

Possibile che oggi abbiamo fatto più di millecinquecento chilometri? Sì, millecinquecento e rotti, attraverso l’Illinois e il Missouri e penetrando nell’Oklahoma, con lunghe tirate anche a centosessanta all’ora; e lasciando fare a Oliver ne avremmo percorsi altri ottocento prima di crollare. Ma noi non ci saremmo riusciti. Oliver stesso ammette che la sua guida comincia a peggiorare dopo i mille chilometri nel medesimo giorno. Lui ci ha portati fino a dopo Joplin, pallido e imbambolato, con i polsi quasi ormai incapaci di girare il volante in modo da seguire le curve registrate dagli occhi. Timothy ha guidato per un centocinquanta-duecento chilometri, io ho fatto il resto, a più riprese, per un totale di tre o quattro ore, e ogni volta mi trovavo sprofondato nel terrore puro.

Ma adesso abbiamo dovuto fermarci: lo scotto fisico è troppo grande. Dubbio, disperazione, depressione, abbattimento si sono infiltrati nel nostro baldo quartetto. Avviliti, sconfortati, scoraggiati, sgomenti, scivoliamo nel moteclass="underline" e ognuno di noi si chiede, a modo suo, come abbiamo potuto decidere d’intraprendere questa spedizione.

Ah! L’albergo Momento della Verità, Chissadove, Oklahoma! Il motel ai confini della Realtà! La locanda dello Scetticismo! Venti casette, falso stile coloniale, facciata in mattoni rossi (di plastica), e colonne di legno bianco che fiancheggiano l’ingresso. Siamo gli unici ospiti, a quanto pare.

Al banco, la portiera di notte mastica gomma: ha una settantina d’anni, e i capelli intrecciati in un fantastico alveare secondo la moda del 1962, tenuto a posto mediante uno spesso strato di lacca robusta. Ci guarda con occhi spenti, senza mostrare il minimo barlume d’interesse. Palpebre pesantemente truccate: ombretto turchese bordato di nero. Una scrofa bolsa, troppo squallida anche solo per fare la prostituta.

— Il bar chiude alle dieci — annuncia, con una bizzarra voce strascicata e metallica.

Appare evidente a tutti noi che Timothy sta accarezzando l’idea di invitarla nella propria stanza per una scopatina; credo che voglia aggiungerla a una specie di collezione di esemplari femminili americani che sta facendo.

A dire il vero — e lo affermo con tutta la mia capacità di osservatore oggettivo, sottospecie polisessuale — quella donna non sarebbe neanche malaccio, una volta raschiatale tutta la porcheria dalla faccia e dai capelli. Bel seno alto, che preme sotto il grembiule verde; zigomi e naso marcati. Ma gli occhi spenti e le labbra cascanti non si possono raschiare via.

Oliver dà un’occhiataccia a Timothy, per avvisarlo di lasciar perdere. Una volta tanto, Timothy cede: lo sconforto generale ha pervaso anche lui.

La donna ci assegna due stanze doppie contigue, tredici dollari a testa, e Timothy presenta il suo onnipotente rettangolo di plastica.

— Fuori a sinistra — dice la donna mentre pasticcia col registratore delle carte di credito; ciò fatto, si astrae completamente dalla nostra presenza e riporta l’attenzione sul televisorino giapponese da cinque pollici appollaiato sul banco.

Noi usciamo, giriamo a sinistra, superiamo la piscina (asciutta), ed entriamo nella casetta assegnata. Dobbiamo fare in fretta, altrimenti perderemo la cena. Giù i bagagli, una sciacquata alla faccia, e via al bar.

Una sola cameriera, con la schiena curva, e intenta a masticare gomma: potrebbe essere la sorella di quell’altra al banco. Anche lei, come noi, ha avuto una giornata pesante: mentre si piega sopra di noi per sbattere l’argenteria sul laminato plastico del tavolo, c’investe con l’acre lezzo del suo sudore.

— Cosa ordinate, ragazzi?

Stasera niente escalopes de veau, niente caneton aux cerises. Invece panini stantii e caffè oleoso. Mangiamo in silenzio, e in silenzio ci trasciniamo nella nostra casetta. Via gli abiti sudati. Poi sotto la doccia, prima Eli e poi io.

La porta che unisce le due stanze si può aprire. L’apriamo. Dall’altra camera giungono fischi e rimbombi: Oliver, chino davanti al televisore, sta manovrando i comandi. Io contemplo la sua ampia schiena tesa, i suoi genitali che penzolano fra le cosce muscolose. Soffoco i miei pensieri di lussuria.

Questi tre filantropi hanno risolto benissimo il problema di vivere con un compagno bisessuale: fingono che la mia «malattia», la mia «condizione», non esista, e si comportano di conseguenza. Regola prima del liberalismo: non fare la paternale ai minorati. Fa conto che il cieco sia capace di vedere, che il negro sia bianco, che il finocchio non provi la minima emozione alla vista del sedere liscio e sodo di Oliver. Non che io gli abbia rivolto un invito esplicito. Ma Oliver lo sa. Lo sa. Non è mica uno sciocco.

Perché stasera siamo così depressi? Perché questa perdita di fede?

Deve avercela attaccata Eli. È stato di umore cupo per tutto il giorno, come perduto nei reami dello scoramento esistenziale. Direi che si trattava di uno dei suoi accessi di tetraggine, dovuti alle difficoltà che incontra a sintonizzarsi con l’ambiente circostante e con l’universo in genere; ma poi, subdolamente, questo suo umore si è generalizzato e ha contagiato anche noi. Ha assunto la forma di dubbi tormentosi.

1 — Perché ci siamo presi la briga di effettuare questo viaggio?

2 — Che cosa ci aspettiamo di ottenere, in realtà?

3 — Possiamo sperare davvero di trovare ciò che cerchiamo?

4 — Se lo troveremo, lo vorremo?

E così bisogna ricominciare da capo l’impresa dell’autodrogaggio, dell’autoconversione. Eli ha tirato fuori le sue carte e le sta esaminando con grande attenzione: il manoscritto della sua traduzione del Libro dei Teschi; le fotocopie dei ritagli di giornale che l’hanno portato a collegare quel certo luogo nell’Arizona con l’antico e inverosimile culto di cui lo stesso Libro dei Teschi potrebbe essere il vangelo; e tutta una raccolta di stralci e citazioni.

Dopo un bel po’ di tempo solleva su di noi lo sguardo e dice:

— L’intera massa delle attuali conoscenze nel campo della medicina è quasi nulla in confronto a quanto c’è ancora da scoprire… Potremmo liberarci da un’infinità di malattie, tanto nel corpo quanto nella mente, e forse anche dal decadimento senile, se solo avessimo una conoscenza sufficientemente vasta delle loro cause e di tutti i rimedi che la natura ci fornisce. E ancora Cartesio, all’età di quarantadue anni, in una lettera al padre di Huygens: Mai come ora ho avuto tanta cura della mia salute; e benché una volta pensassi che la morte mi avrebbe sottratto nulla più di trenta o quarant’anni di vita, d’ora in poi non potrà giungermi senza defraudarmi della speranza di campare altri cent’anni e più; infatti mi sembra lampante che se rifuggiamo da certi errori abituali nel nostro modo di vivere possiamo conseguire — senza necessità di ulteriori scoperte — una vecchiaia molto più lunga e felice di quella che ci attende ora.

Non è la prima volta che sento queste citazioni. Eli ci ha già presentato molto tempo fa tutto il suo materiale. La decisione di andare in Arizona è maturata con una lentezza estrema, in ettari e ettari di vaniloqui pseudofilosofici. E come le altre volte, io obbietto: — Cartesio è morto a quarantaquattro anni, non è vero?

— Un incidente. Un colpo di sfortuna. Inoltre non aveva ancora perfezionato la sua teoria della longevità.

Timothy: — Peccato che non abbia lavorato più in fretta.

— Peccato, sì: peccato per noi quattro — ribatté Eli.

— Ma noi possiamo sperare nei Custodi dei Teschi. Quelli le hanno perfezionate, le loro tecniche.