E poi c’era Oliver. Anche questo fu un colpo di fortuna, perché avrei potuto benissimo vedermi assegnato come compagno di stanza un tipo strambo, bislacco, uno di indole cupa, repressa, invidiosa; e invece Oliver aveva l’aria di essere del tutto normale. Di bell’aspetto, chiaramente cresciuto a grano, veniva da una zona agricola del Kansas e aveva fatto il corso propedeutico di medicina. Era alto come me, anzi un paio di centimetri di più: il che per me era O.K., perché mi trovo a disagio con persone basse. All’esterno era tutt’altro che complicato. Quasi ogni cosa gli faceva nascere sulle labbra un sorriso.
Un tipo che prendeva tutto con filosofia, insomma. Entrambi i genitori morti: poteva permettersi l’università grazie a una borsa di studio. Io capii subito che non aveva il becco di un quattrino, e per un attimo ebbi il timore che ciò potesse costituire causa d’attrito fra noi: ma invece no, perché l’atteggiamento di Oliver nei confronti dei quattrini era perfettamente equilibrato. Il denaro non gl’importava, purché ne avesse abbastanza per pagarsi vitto alloggio e vestiario. E l’aveva: una piccola eredità, frutto della vendita della fattoria di famiglia. Si dimostrò divertito, anziché intimorito, alla vista del grosso rotolo di banconote che io oortavo sempre addosso. Il primo giorno mi disse che aveva intenzione di entrare nella squadra universitaria di pallacanestro, e io immaginai che avesse vinto la borsa di studio per meriti sportivi. Ma mi sbagliavo: la pallacanestro gli piaceva molto, giocava con impegno, ma era venuto all’università per imparare. Ecco la vera differenza fra noi due: non la faccenda del Kansas o del denaro, ma il suo senso del dovere. Io ero andato all’università perché tutti i maschi della mia famiglia ci sono sempre andati prima di entrare nel mondo degli adulti; Oliver, invece, per tramutarsi in un’immensa macchina intellettuale. Possedeva — e possiede tuttora — uno stimolo interno enorme, incredibile, schiacciante.
Qualche volta, nelle primissime settimane, lo sorpresi senza la sua maschera: scomparso il radioso sorriso da ragazzo di campagna, il volto rigido, i muscoli delle guance serrati, gli occhi che mandavano un lampo gelido. La sua forza di volontà fa quasi paura. Oliver ha bisogno di essere perfetto in tutto. Ha sempre avuto la media del 30, è entrato nella squadra di pallacanestro e già nella prima partita ha battuto il record di punteggio della nostra università, è sempre rimasto alzato per quasi tutta la notte a studiare, dormendo poco o nulla.
Tuttavia è anche riuscito a dimostrarsi umano. È capace di trangugiare enormi quantità di birra, può farsi una dopo l’altra un numero qualsiasi di ragazze (abbiamo l’abitudine di scambiarcele fra noi) e sa suonare abbastanza bene la chitarra. L’unica cosa davanti alla quale è saltato fuori l’altro Oliver, l’Oliver-macchina, è stata la droga. La seconda settimana che eravamo all’università rimediai dell’ottima erba marocchina, e lui non ne volle assolutamente. Disse che aveva impiegato diciassette anni e mezzo a calibrarsi alla perfezione il cervello, e che quindi non intendeva certo farlo andare fuori fase. Per quel che ne so io, nei quattro anni passati da allora non ha neanche fumato mezza cicca alla marijuana. Sopporta il nostro vizio del fumo, ma lui non ne vuole sapere.
Nella primavera del secondo anno giunse Ned. Oliver e io avevamo dichiarato nell’apposito modulo di voler rimanere compagni di stanza. Ned era compagno di corso di Oliver in due discipline: fisica (che Ned aveva scelto come materia scientifica obbligatoria) e letteratura comparata (che Oliver aveva scelto come materia umanistica obbligatoria). Oliver incontrava un po’ di difficoltà nel comprendere a fondo Joyce e Yeats, e Ned incontrava un mucchio di difficoltà nel comprendere a fondo la teoria dei quanta e la termodinamica: perciò avevano convenuto di darsi ripetizioni a vicenda.
Erano una vera e propria attrazione di opposti, quei due. Ned era piccolo, pelle e ossa, occhioni miti, voce sommessa, movenze aggraziate. Bostoniano di origine irlandese, famiglia cattolica praticante, cresciuto in scuole di preti, ancora al secondo anno di università portava addosso un crocefisso e talvolta andava perfino a messa. Intendeva diventare poeta e scrittore di racconti. No, «intendeva» non è la parola giusta. Come ha spiegato una volta lui stesso, chi ha talento non intende diventare scrittore. O lo si ha o non lo si ha, il talento. Chi l’ha, scrive; e chi non l’ha, «intende» scrivere. Ned scriveva sempre. Scrive sempre tuttora. Non si separa mai da un quadernetto a fogli mobili, in cui butta giù rapidi appunti su tutto ciò che sente in giro. A me, in verità, i suoi racconti sembrano vaccate e le sue poesie nient’altro che scemenze senza senso; ma riconosco che probabilmente la colpa sta nel mio gusto, non nel suo talento, poiché ho la medesima reazione nei confronti di un sacco di scrittori molto più famosi di Ned. Lui, almeno, coltiva con impegno il suo talento.
Divenne per noi una specie di mascotte. Era molto più in confidenza con Oliver che con me, ma a me non dispiaceva averlo attorno: era un individuo diverso da me, con un modo di considerare la vita completamente diverso dal mio. La sua voce sommessa, i suoi occhi da cane frustato, il suo abbigliamento bislacco (indossava spesso la veste talare, suppongo per far credere che nonostante tutto era riuscito a diventare sacerdote), la sua poesia, la sua maniera caratteristica di fare del sarcasmo, la sua mente complicata (considerava sempre due o tre aspetti di ogni argomento, ed era capace di credere a tutto e a nulla contemporaneamente)… insomma, ogni cosa in lui mi affascinava. Oliver e io dovevamo essergli apparsi tanto estranei quanto lui a noi. Veniva tanto spesso a trovarci che finimmo con l’invitarlo a dividere con noi la stanza. Non mi ricordo da chi venne l’idea, se da Oliver o da me (o forse dallo stesso Ned?).
A quell’epoca non sapevo che era invertito. O meglio un «finocchio», per usare il termine che lui preferisce. Il guaio di vivere una ben protetta vita da protestante aristocratico è che si è a contatto con una ristrettissima fetta di umanità, e non si è portati ad aspettarsi l’insolito. Naturalmente sapevo che esistono gli omosessuali. Ne avevo incontrati anche a scuola. Camminavano con i gomiti in fuori, portavano i capelli inanellati, e parlavano con un accento caratteristico, il falsetto universale che si sente dal Maine alla California. Leggevano sempre Proust e Gide, e alcuni portavano addirittura il reggipetto sotto la camiciola sportiva a maniche corte.
Ma Ned non era cosa appariscente. E io non sono così ingenuo da prendere automaticamente per invertito chiunque scriva (o legga!) poesie. Era un po’ femmineo, sì, aveva un’aria poco virile; ma in fin dei conti non ci si può aspettare che un ragazzo di cinquanta chili s’interessasse molto al rugby. (Invece si dedicava al nuoto, quasi tutti i giorni. Nella piscina dell’università nuotavamo senza costume, per cui Ned si godeva gratis uno spogliarello integrale ma a quell’epoca io ignoravo ancora la faccenda).
Una cosa è certa: non l’ho mai visto uscire con una ragazza. Il che, di per sé, non è certo riprovevole. La settimana prima degli esami finali, due anni fa, Oliver e io e un paio di altri ragazzi tenemmo nella nostra stanza quella che si potrebbe definire orgia: Ned era presente, e non sembrava affatto sconvolto all’idea. Lo vidi io stesso farsi una pollastrella, una foruncolosa cameriera venuta dalla città. Solo molto tempo dopo mi resi conto che: primo, per Ned un’orgia può essere un interessante soggetto letterario; secondo, non è che le ragazze lo lascino indifferente ma i maschi gli piacciono di più.
Ned ci portò Eli. No, non erano amanti, ma solo amiconi. La prima cosa che mi disse Eli, o quasi, fu: — Se hai dei dubbi, ti avviso subito che sono eterosessuale. Ned non cerca i tipi come me, e io non cerco i tipi come lui. — Non lo dimenticherò mai. Fu la prima volta che qualcuno mi aprì gli occhi sul fatto che Ned era quello che era; e credo che neppure Oliver se ne fosse reso conto, benché non si possa mai dire che cosa passa per la mente di Oliver.