Eli, naturalmente, aveva etichettato giusto il suo amico Ned. Era un ragazzo di città, un intellettuale di Manhattan: sapeva classificare chiunque alla prima occhiata. Non gli piaceva il suo compagno di stanza e voleva cambiare, e noi avevamo un sacco di spazio; perciò ne parlò con Ned e Ned ci chiese se Eli poteva trasferirsi da noi, all’inizio del secondo anno.
Il mio primo ebreo! Neanche questo, avevo intuito. Timothy Winchester quanto sei ingenuo! Fai la conoscenza di un certo Eli Steinfeld, che abita nell’Ottantatreesima Strada Est, e non ti viene neppure in mente che possa essere ebreo! Be’, sulle prime avevo pensato che fosse un cognome tedesco: di solito gli ebrei si chiamano Cohen o Katz o Goldberg. Non venni subito conquistato dalla personalità di Eli, per così dire; ma appena scoprii che era ebreo sentii che dovevo acconsentire al suo trasferimento da noi. Allo scopo di allargarmi la mente con lo studio di tutto ciò che fosse diverso da me, si, e anche perché mi avevano insegnato a detestare gli ebrei e perciò dovevo ribellarmi.
Intorno al 1923, mio nonno paterno aveva fatto una brutta esperienza con certi scaltri ebrei di Wall Street che l’avevano persuaso a investire una grossa somma in una società radiofonica che volevano fondare; ma erano dei truffatori, e lui ci perse un cinque milioni, per cui nella nostra famiglia divenne una regola non fidarsi mai degli ebrei. Mi sono sempre sentito dire che sono grossolani, trafficoni, pusillanimi, eccetera eccetera; che fanno di tutto per soffiare a un onesto milionario protestante la ricchezza duramente ereditata, eccetera eccetera. Per la verità, una volta mio zio Clark mi confidò che il nonno avrebbe raddoppiato il suo capitale se avesse venduto entro otto mesi, come avevano fatto segretamente i suoi soci ebrei; ma no, volle tirare in lungo per ricavarne un guadagno ancora più pingue, e rimase fregato.
Comunque io non ho intenzione di osservare tutte le regole e tradizioni di famiglia. Eli si trasferì da noi. Basso, piuttosto scuro di carnagione, pelo su tutto il corpo, occhietti svegli e irrequieti, naso grande. Ingegno vivace. Esperto di lingue medioevali, e già riconosciuto come importante studioso nel suo campo. Quanto al resto, fa un po’ compassione: impacciato nel parlare, nevrotico, iperteso, preoccupato per la sua virilità.
Sempre a caccia di ragazze, solitamente finisce col non combinare un bel nulla. E le sue prede sono delle scorfane, perdipiù. Non i rottami spettacolosamente orripilanti che Ned (Dio solo sa perché) predilige; Eli va in cerca di un tipo diverso di femmine senza femminilità. Ragazze introverse, insignificanti, macilente, piatte come una tavola, con lenti spesse come fondi di bicchiere: roba del genere, insomma. Naturalmente sono nevrotiche come lui, terrificate dal sesso; e non lo incoraggiano certo, il che rende più grave il suo problema. Sembra che Eli abbia una paura matta a corteggiare una normale pollastrella attraente e sensuale. L’autunno scorso, per carità cristiana, gli ho buttato fra le braccia Margo: è riuscito soltanto a comportarsi in maniera inconcepibilmente sciocca.
Sì, siamo proprio un bel quartetto. Credo che non dimenticherò mai la prima (e probabilmente unica) volta in cui i genitori di noi tutti si sono riuniti insieme, durante le vacanze di carnevale. Suppongo che fino allora nessuno di loro fosse riuscito a farsi un’immagine chiara dei compagni di stanza del rispettivo figlio. Un paio di volte, in occasione del Natale, io avevo invitato Oliver a venire a trovare mio padre; ma Ned e Eli no, né ero mai andato a casa loro.
Dunque ci siamo riuniti tutti insieme. Niente genitori di Oliver, naturalmente. E anche il padre di Ned era morto. Sua madre era una stangona ossuta sul metro e ottanta, con occhi infossati e tutta in nero, che parlava con accento dialettale. Impossibile indovinare che Ned era suo figlio, se non lo si sapeva prima. La madre di Eli era grassottella, bassa, ancheggiante, vestita in modo troppo vistoso; suo padre era pressoché invisibile, un omettino triste in volto che continuava a tirare sospironi. Apparivano entrambi molto più anziani di Eli. Devono averlo avuto sui trentacinque o quarant’anni. Poi c’era mio padre, il cui aspetto è quello che presumibilmente avrò io fra venticinque anni: guance lisce e rosee, folti capelli di colore variante dal biondo al grigio, sguardo che parla di ricchezza.
Un bell’uomo grande e grosso, il tipo del consigliere d’amministrazione. Con lui c’era Saybrook, sua moglie: alta, tirata a lucido, lunghi capelli biondi, corpo atletico dall’ossatura forte, proprio il tipo dell’amazzone nella caccia alla volpe. Suppongo che sia sui trentotto anni, ma ne dimostra dieci di meno.
Immaginiamo questo gruppetto — seduto a un tavolo sotto un ombrellone nel cortile interno dell’università — che cerca di fare conversazione. La signora Steinfeld che si sforza di alitare calore materno su Oliver, il povero caro orfano. Il signor Steinfeld che occhieggia inorridito il completo italiano di mio padre (seta pura, 450 dollari). La madre di Ned che è completamente nelle nuvole e non capisce nulla né di suo figlio, né degli amici di suo figlio, né dei loro genitori, né di qualsiasi altro aspetto del ventesimo secolo. Saybrook che si butta con entusiasmo su ogni argomento, con vero impeto da amazzone, e cicala allegramente di tè di beneficenza e dell’imminente debutto della sua figliastra. (- È un’attrice? — domanda stupita la signora Steinfeld. — Intendevo il debutto in società — risponde Saybrook, altrettanto stupita). Mio padre che si contempla le unghie, senza quasi guardare in faccia gli Steinfeld e Eli. Il signor Steinfeld, tanto per fare conversazione, si mette a parlare di Borsa con mio padre. Il signor Steinfeld non possiede azioni, ma legge a fondo il Times. Mio padre non sa niente della Borsa (fintanto che i dividendi arrivano puntualmente, lui è felice e beato); inoltre fa parte della sua religione non parlare mai di denaro. Lancia allora un segnale a Saybrook, la quale cambia abilmente discorso e ci racconta che lei è presidente di un comitato che raccoglie fondi per i profughi palestinesi: — Sapete — dice — quelli che sono stati scacciati dagli ebrei al momento della fondazione dello stato d’Israele. — La signora Steinfeld emette un’esclamazione soffocata. Ma è una cosa da dire davanti a ben tre israeliti?
Poi mio padre indica, nel cortile, uno studente che si è appena girato verso di noi, e dice: — Avrei giurato che quel giovanotto fosse una ragazza. — Oliver, che si è lasciato crescere i capelli fino alle spalle (per far vedere cosa pensa del Kansas, immagino), gli rivolge il più gelido dei sorrisi. Infischiandosene (oppure perché non se n’è accorto), mio padre continua: — Mi sbaglierò, ma non posso fare a meno di sospettare che molti di quei giovanotti con i riccioli fluenti siano un pochino omosessuali.
Ned scoppia in una risata fragorosa. Sua madre arrossisce e tossicchia: non perché sappia che il suo ragazzo è un finocchio (non lo sa, per lei è una cosa inconcepibile), ma perché il compitissimo signor Winchester ha detto una parola sconveniente. Gli Steinfeld, che sono svelti di comprendonio, guardano prima Ned poi Eli, e infine si scambiano un’occhiata. Sarà al sicuro, il loro ragazzo, con un simile compagno di stanza? Mio padre non riesce a capire quale agitazione sia stata scatenata dalla sua osservazione incidentale, e non sa per cosa deve porgere le scuse e a chi. Aggrotta la fronte, perplesso, e Saybrook gli mormora qualcosa (eh-eh, Saybrook, cosa direbbe Emily Post, quella della rubrica di galateo?); lui reagisce colorandosi in volto di una splendida tinta purpurea che travalica nell’infrarosso.
— Si potrebbe ordinare un po’ di vino — propone, tanto per nascondere l’imbarazzo; e con un gesto imperioso chiama uno studente-cameriere.
— Avete dello Chassagne-Montrachet del ’69? — domanda.
— Scusi? — fa il cameriere con aria inebetita.