Выбрать главу

Quando nello specchietto l’hippy è scomparso alla vista, guardo di nuovo Oliver. La sua faccia è più calma, ora; la vena si è decongestionata, il rossore è svanito. Ma l’espressione è ancora bizzarramente fissa e gelida. Occhi immobili, un muscolo che guizza in quella sua guancia da bel bambino. Prima che l’elettricità abbia finito di scoppiettare, all’interno della vettura, percorriamo una trentina di chilometri.

Infine domando: — Perché l’hai fatto, Oliver?

— Fatto che?

— Costringermi a fregare quell’hippy.

— Io voglio arrivare dove sto andando — risponde Oliver. — Mi hai mai visto raccogliere autostoppisti, finora? Gli autostoppisti significano guai. Significano perdite di tempo. Avremmo dovuto portarlo per qualche strada secondaria fino alla sua comune. Un’ora, due ore di ritardo sulla nostra tabella di marcia.

— Non l’avrei mica fatto. Inoltre, tu hai reclamato per la sua puzza. Avevi paura di finire accoltellato. Cos’è tutto questo, Oliver? Sei diventato paranoico a causa dei tuoi capelli lunghi?

— Forse non avevo la mente lucida — dice Oliver, che in vita sua l’ha sempre avuta lucidissima. — Forse ho tanta fretta di andare avanti che dico cose che non penso — dice Oliver, che non parla mai senza prima essersi scritto la minuta. — Non lo so. Ho avuto semplicemente la sensazione viscerale che non dovevamo raccoglierlo — dice Oliver, che in vita sua ha dato sfogo a una sensazione viscerale solo quando non gli avevano ancora insegnato a usare il vasino. — Scusami se ti ho strapazzato, Ned — dice Oliver.

Dopo dieci minuti di silenzio, aggiunge: — Credo che dovremmo metterci d’accordo su una cosa. Da adesso fino alla fine del viaggio, niente autostoppisti. Okay? Niente autostoppisti.

18

Eli

Hanno fatto bene, a scegliere come ubicazione della Casa dei Teschi questa regione crudele e inaridita. I culti di antica origine devono circondarsi di mistero e di romantica inaccessibilità, se vogliono conservarsi a dispetto della cacofonica babele del ventesimo secolo scettico e materialista. Un deserto è l’ideale. Qui il cielo è talmente azzurro da far dolere gli occhi, il suolo è una sottile crosta bruciata che ricopre uno zoccolo di roccia, i cespugli e gli alberi sono contorti, spinosi, stranissimi. In un posto come questo, il tempo non scorre. Il mondo moderno non può né intrufolarsi né gettare la propria corruzione. Le antiche divinità possono prosperare in pace. Le antiche salmodie si elevano al cielo, non contaminate da rumore di traffico o rimbombo di macchinari.

Dico tutto questo a Ned, ma lui non è d’accordo: il deserto è ovvio e plateale, afferma, e perfino un po’ di cattivo gusto; il luogo adatto per sopravvissuti dell’antichità quali i Custodi dei Teschi è il cuore di una città animata, dove il contrasto fra la loro e la nostra natura sarebbe il maggiore possibile. Per esempio un bell’edificio signorile nella Sessantatreesima Strada Est, dove i preti potrebbero con soddisfazione praticare i loro riti a contatto di gomito con gallerie d’arte e saloni di bellezza per cani. Un’altra possibilità, suggerisce ancora Ned, sarebbe un’officina a un piano, in mattoni e lastre di vetro, in un’area industriale di periferia: un’officina per la costruzione di condizionatori d’aria e attrezzature per ufficio. Il contrasto è tutto, afferma Ned. L’assurdità è essenziale. Il segreto dell’arte sta nel conseguire un’armonia di giustapposizioni; e cos’è la religione se non una categoria di arte?

Ma io concludo che Ned mi sta pigliando in giro, come al solito. In ogni caso io non accetto le sue teorie sul contrasto e la giustapposizione. Questo deserto, questa distesa arida, è la sede perfetta per la base operativa di coloro che non moriranno mai.

Quando usciamo dal Nuovo Messico ed entriamo nell’Arizona meridionale ci lasciamo alle spalle le ultime tracce dell’inverno. Fino ad Albuquerque l’aria era stata fredda, talvolta perfino gelida; ma l’altitudine è maggiore, in quella zona. Poi il terreno si è abbassato a mano a mano che procedevamo verso il confine, verso Phoenix. La temperatura è salita bruscamente, da dieci a venti gradi e più. Le montagne sono più basse e sembrano fatte di particelle di terra bruno-rossiccia compresse in mucchi e cosparse di colla: io mi figuro che potrei praticarvi una buca profonda usando solo un dito. Alture dolci, morbide, vulnerabili, praticamente nude. Hanno un’aria marziana.

Anche la vegetazione è diversa. Invece di scure distese di cespugli deambulanti, e pini piccoli e contorti, qui c’è una rada foresta di cactus giganteschi che si ergono come tanti itifalli dal suolo bruno e squamoso.

Ned ci tiene una lezione di botanica. Quelli là, dice, quei cactus più alti dei pali del telefono, con i bracci piuttosto grossi, sono i saguaro; e quegli arbusti grigiazzurri che sembrerebbero originali di un altro pianeta, senza foglie, con i rami che terminano, a spina, sono i palo verde; e quei viluppi di rami legnosi, rivolti verso l’alto ma pieni di protuberanze, vengono chiamati ocotillo.

Ned conosce bene, il sudovest. Qui si sente proprio come a casa sua, perché un paio d’anni fa ha trascorso l’estate nel Nuovo Messico. Ma si sente a casa sua dappertutto, Ned. Gli piace parlare della fratellanza internazionale degl’invertiti: dovunque vada, è sicuro di trovare alloggio e compagnia presso i suoi consimili. Vale la pena di soffrire tutti i traumi (peraltro leggeri) dovuti al fatto di essere invertiti in una società di «normali», se si ha la certezza che esistono posti in cui si è benvenuti per nessun’altra ragione se non perché si è membri della stessa «tribù». Neppure quelli della mia tribù sono così ospitali.

Attraversiamo il confine e filiamo verso Phoenix. Per un tratto, il terreno si fa più montagnoso e meno squallido. Terra d’indiani, questa: indiani Pima. Cogliamo una rapida visione di Coolidge Dam, e ci vengono in mente le lezioni di geografia del terzo anno.

Siamo ancora un centocinquanta chilometri a est di Phoenix, quando vediamo una serie di cartelli pubblicitari che ci suggeriscono (anzi, ci ordinano perentoriamente) di fermarci in un certo albergo, in città: FATE UNA VACANZA FELICE NELLA VALLE DEL SOLE. Il sole già ci opprime, anche se è pomeriggio tardi: sospeso lassù sopra il parabrezza, ci getta negli occhi una pioggia di rossodorati strali di fuoco. Oliver, che guida come un automa, tira fuori un paio di occhiali da sole avvolgenti, di quelli con le lenti argentate, e prosegue imperterrito.

Sfrecciamo attraverso una città che si chiama Miami. No, non è quella delle spiagge e delle matrone in visone. L’aria è tinta di rosa e di viola a causa del fumo che esce dalle ciminiere; la puzza è tale e quale quella che doveva esserci ad Auschwitz. Ma cosa staranno cremando, qui? Poco prima del centro della città vediamo un’enorme montagnola a forma d’incrociatore: è il materiale di scarto di una miniera di rame, accumulatosi con gli anni. Di fronte, sull’altro lato della statale, c’è un motel colossale e sfarzoso: suppongo che sia a beneficio di coloro che praticano così in bella vista quello stupro ambientale. Ciò che stanno cremando, qui, è la natura stessa.

Filiamo via, nauseati, e poco dopo ci troviamo di nuovo nel deserto. Saguaro, palo verde, ocotillo. Sfrecciamo attraverso una gallerìa di montagna. Terreno selvaggio, abbandonato, senza città. Le ombre si allungano. Caldo, caldo, caldo.

E poi, d’un tratto, ecco i tentacoli della vita urbana che si protendono fin lì dall’ancora lontana Phoenix: suburbi, centri-acquisti, stazioni di rifornimento, bancarelle che vendono ricordini indiani, motel, luci al neon, chioschi di cibi pronti che offrono taco, budini alla crema, hot dog, polli fritti, panini al rosbif.