Convinciamo Oliver a fermarsi e mangiamo dei taco all’irreale luce giallastra dei lampioni. Poi via di nuovo. La strada è fiancheggiata da enormi empori, la cui facciata è una superficie unica senza finestre. Questa è la regione del denaro, la sede dell’opulenza. Io sono straniero in terra straniera: un povero ebreo del nordest, disorientato e fuor d’acqua, che passa rapido fra i cactus e le palme. Così lontano da casa! E queste città piatte, queste banche a un solo piano che luccicano di vetri verdastri e di insegne psichedeliche in plastica! Case color pastello, con decorazioni rosa e verdi. Una regione che non ha mai conosciuto la neve. Dappertutto sventolano bandiere americane. Prendere o lasciare.
Mesa, la Via Principale. Accanto alla strada si erge la Facoltà di Agricoltura Sperimentale dell’Università dell’Arizona. Lontanissime montagne si profilano all’orizzonte nel crepuscolo azzurrognolo. Poi eccoci in Viale Apache, nella città di Tempe. La strada descrive una curva, le ruote stridono. E di colpo ci troviamo nel deserto. Niente vie, niente cartelli, niente di niente: è una terra di nessuno. Scure sagome irregolari alla nostra sinistra: colline, montagne. In lontananza si vedono fari di auto. Pochi minuti e quella desolazione termina: abbiamo attraversato l’intercapedine fra Tempe e Phoenix, e adesso siamo in Via Van Buren. Negozi, case, motel.
— Prosegui fino in centro — dice Timothy.
La sua famiglia, a quanto pare, possiede il pacchetto di maggioranza di uno dei motel di lusso della città: ci fermeremo appunto lì. Altri dieci minuti, attraverso un quartiere piccoli motel da cinque dollari per notte e di negozi di libri usati, e arriviamo in centro. Qui ci sono grattacieli di dieci o dodici piani, palazzi di banche, la sede di un giornale, grandi alberghi. Il caldo è spaventoso, sui trentadue gradi. Siamo solo a fine marzo: che temperatura ci sarà, in agosto?
Ecco il nostro motel. Davanti, un cammello di pietra. E una grande palma, vera. Atrio stretto, affollato. Timothy si registra. Ci viene assegnato un appartamento. Secondo piano, sul retro. C’è una piscina.
— Chi ci sta, a fare una nuotata? — propone Ned.
— E poi una cena messicana — aggiunge Oliver.
Abbiamo i bollenti spiriti. Questa è Phoenix, in fin dei conti. Ci siamo proprio arrivati. Abbiamo quasi raggiunto la nostra meta. Domani andremo verso nord, alla ricerca del ritiro segreto dei Custodi dei Teschi.
Mi sembrano anni, da quando la faccenda ha avuto inizio.
Un accenno casuale, distratto, nella pagina turistica del giornale della domenica. Un «monastero» nel deserto, non molto a nord di Phoenix, dove dodici o quindici «monaci» praticano una specie di cristianesimo tutto loro particolare.
— Sono risaliti una ventina di anni fa dal Messico, dove si ritiene che siano giunti dalla Spagna intorno all’epoca di Cortes. Economicamente autosufficienti, vivono staccati dal mondo e non incoraggiano le visite di estranei, benché si comportino in modo educato e cordiale con chiunque capiti per caso nel loro remoto ritiro circondato dai cactus. La bizzarra architettura è una combinazione di stile paleocristiano e di presumibili motivi aztechi. Uno dei simboli ricorrenti (che dà al monastero un aspetto bizzarro, quasi irreale) è il teschio umano. Ci sono teschi ovunque, con la mandibola aperta o chiusa, in altorilievo o a tutto tondo. Un lungo fregio a teschi sembra ricalcato su quelli di Chichén Itzá, nello Yucatán. I monaci sono magri, pieni di fervore, con la pelle abbronzata e indurita dall’esposizione al sole e al vento del deserto. Cosa abbastanza strana, sembrano al tempo stesso vecchi e giovani. Quello con cui ho parlato, e che non ha voluto dirmi il suo nome, poteva avere sia trent’anni che trecento…
È solo per caso che mi capitò di notare questo trafiletto mentre scorrevo distrattamente la pagina turistica. È solo per caso che mi s’impressero nella memoria alcune di quelle strane immagini: il fregio di teschi, le facce vecchie-giovani… È solo per caso che pochi giorni dopo mi capitò fra le mani il manoscritto del Libro dei Teschi, nella biblioteca dell’università.
La nostra biblioteca ha una geniza, una sezione di anticaglie, manoscritti, apocrifi, che nessuno si è mai preso la briga di tradurre, decifrare, classificare, o almeno esaminare. Suppongo che tutte le grandi università abbiano un deposito simile, con una miscellanea di documenti ottenuti grazie a lasciti o portati alla luce durante scavi compiuti dall’università stessa: documenti che poi se ne stanno lì ad aspettare (vent’anni? cinquanta?) che qualche studioso li esamini con cura.
Il nostro deposito è più ricco di tanti altri perché tre generazioni di bibliotecari hanno avidamente accumulato i tesori dell’antichità più in fretta di quanto un battaglione di studiosi potrebbe mai tenersi al corrente dei nuovi arrivi. Con questo sistema è inevitabile che qualche documento rimanga in disparte, sommerso dall’incessante marea, e che finisca nascosto, dimenticato, derelitto.
E così noi abbiamo scaffali pieni zeppi di documenti sumeri e babilonesi in caratteri cuneiformi, la maggior parte dei quali portati alla luce durante i nostri famosi scavi del 1902-1905 nella Mesopotamia meridionale; abbiamo scatoloni di papiri intonsi delle ultime dinastie; abbiamo chili di materiale proveniente dalle sinagoghe irachene, non soltanto rotoli della Torah ma anche contratti di matrimonio, sentenze del tribunale, contratti d’affitto, poemi; abbiamo bastoni in legno di tamerisco, con iscrizioni, provenienti dalle grotte di Tun-huang (dono negletto di Aurel Stein, chissà di quanto tempo fa); abbiamo casse di registri parrocchiali provenienti dagli ammuffiti archivi di antichi castelli dello Yorkshire; abbiamo frammenti e strisce di codici del Messico precolombiano; abbiamo cataste di inni sacri provenienti dai monasteri pirenaici del quattordicesimo secolo.
Per quel che se ne sa, la nostra biblioteca potrebbe possedere una Stele di Rosetta in grado di svelare i segreti della scrittura di Mohenjo Daro; potrebbe avere la grammatica etrusca dell’imperatore Claudio; potrebbe comprendere, fuori catalogo, le memorie di Mosè o il diario di Giovanni Battista. Queste scoperte, se è destino che siano fatte, saranno fatte da altri cacciatori che si spingeranno nelle buie e polverose gallerie del deposito sotto l’edificio principale della biblioteca. Ma io, io sono quello che ha scoperto il Libro dei Teschi.
In verità non lo stavo cercando. Non ne avevo mai sentito parlare. Avevo rimediato il permesso di accedere al sotterraneo per cercare una raccolta di manoscritti di versi mistici catalani del tredicesimo secolo, presumibilmente ottenuta nel 1893 dall’antiquario barcellonese Jaime Maura Gudiol. Il professor Vasquez Ocaña, col quale dovrei eseguire una serie di traduzioni dal catalano, aveva sentito parlare della raccolta Maura dal suo professore, trenta o quarant’anni fa, e si ricordava vagamente di aver avuto per le mani qualcuno di quei manoscritti. Consultando stinte schede compilate con l’inchiostro copiativo del diciannovesimo secolo, appresi in quale punto del sotterraneo era probabile che si trovasse la raccolta Maura, e andai a vedere.
Locale buio; scatoloni ancora sigillati; un’infinità di cartellette di custodia; niente fortuna. Un gran tossire per la polvere. Dita annerite, faccia imbrattata. Proviamo un altro scatolone e poi basta.
Ed ecco: una custodia rigida in carta rossa contenente uno splendido manoscritto miniato, su fogli di ottima pergamena. Il titolo, adorno di ricchi fregi: LIBER CALVARIORUM. Il Libro dei Teschi.
Un titolo affascinante, sinistro, romantico. Girai una pagina. Chiara, ferma, elegante scrittura unciale del decimo o undicesimo secolo; testo non in latino ma in un catalano molto latineggiante, che tradussi a prima vista. Sappi questo, o nobile di nascita: la vita eterna offriamo a te. Il più maledettamente bislacco inizio di testo che avessi mai incontrato. Per caso avevo commesso un errore d’interpretazione? No. La vita eterna offriamo a te.