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La pagina conteneva un paragrafo di testo, non tutto così facile da capire subito come l’inizio; lungo la base e il margine sinistro c’erano otto teschi umani splendidamente dipinti, ciascuno separato dal successivo mediante due colonne che reggevano un arco romanico. Soltanto uno conservava la mandibola. Uno era coricato di fianco. Ma tutti sogghignavano, e nelle loro orbite scure brillava un lampo di malizia: come se ciascuno di quei teschi dicesse dall’oltretomba: ti sarà di qualche giovamento apprendere le cose che noi abbiamo potuto imparare solo qui.

Mi sedetti su una cassa di antiche pergamene e scorsi rapidamente il manoscritto. Dodici fogli, tutti decorati con disegni di genere tombale: femori incrociati, lapidi rovesciate, un paio di bacini, e teschi, teschi, teschi, teschi. Tradurre a vista non mi fu possibile: la maggior parte delle parole mi erano oscure, poiché non erano né in latino né in catalano ma in una fantastica lingua intermedia. Tuttavia mi fu presto chiaro il senso generale.

Il testo era indirizzato a un certo principe dall’abate di un monastero che godeva della protezione del medesimo, ed era essenzialmente un invito a ritirarsi dalle vanità del mondo allo scopo di condividere i «misteri» di quell’ordine monastico. Le pratiche dei monaci, diceva l’abate, erano dirette alla sconfitta della Morte; e con ciò non intendeva il trionfo dello spirito nell’aldilà ma il trionfo del corpo in questo mondo. La vita eterna offriamo a te. Contemplazione, esercizi spirituali e fisici, dieta appropriata, e così via… Ecco le porte verso la vita imperitura.

Un’ora di fatica e sudore mi permise di ricavare i passi seguenti:

«Il Primo Mistero è questo: il teschio giace sotto il volto, così come la morte giace lungo la vita. Ma in ciò, o nobile di nascita, non vi ha paradosso, poiché la morte è la compagna della vita e la vita è la messaggera della morte. Se solo si potesse penetrare attraversò il volto fino al teschio sottostante e porgergli amicizia; sarebbe possibile… (il resto non riuscii a decifrarlo).

«Il Sesto Mistero è questo: il nostro dono sarà sempre spregiato e noi saremo sempre in fuga tra gli uomini, tanto che dovremo passare da un luogo all’altro, dalle grotte del nord alle grotte del sud, da (???) dei campi a (???) della città, così come è avvenuto nelle centinaia di anni della mia esistenza e nelle centinaia di anni dell’esistenza dei miei progenitori…

«Il Nono Mistero è questo: il prezzo di una vita non può mai essere altro che una vita. Sappi, o nobile di nascita, che le eternità devono essere controbilanciate dalle estinzioni, e per questo ti chiediamo di mantenere con lietezza l’equilibrio prestabilito. Due di te ci impegniamo ad accogliere nel nostro gregge. Due dovranno andare nelle tenebre. Come, vivendo, moriamo giorno per giorno, così, morendo, vivremo per sempre. C’è fra te uno che sia disposto a rinunciare all’eternità in favore dei suoi fratelli della figura quadrilatera, in modo che loro possano giungere a comprendere il significato dell’abnegazione? E c’è fra te uno che i suoi compagni accettino di sacrificare, in modo da poter giungere a comprendere il significato dell’esclusione? Le vittime si scelgano da sé. Dimostrino, con la qualità del loro dipartire, la qualità della propria vita…».

C’era dell’altro ancora: diciotto Misteri in tutto, più una perorazione in parole assolutamente incomprensibili. Rimasi subito avvinto. Non tanto da un immediato collegamento con quel tal monastero in Arizona, quanto piuttosto dal fascino intrinseco del testo, dalla sua sobria bellezza, dalle sue minacciose decorazioni, dai suoi ritmi scanditi.

Portar via il manoscritto dalla biblioteca era impossibile, naturalmente; ma io risalii le scale, sbucando dal sotterraneo come la sudicia ombra di Banquo, e chiesi di poter usare una stanzetta di lettura sepolta fra le alte file di scaffali.

Mi recai negli alloggi e feci un bagno. Non dissi nulla a Ned circa la mia scoperta, benché avesse capito subito, anche solo guardandomi, che avevo la mente tutta presa da qualcosa. Infine tornai in biblioteca, armato di blocco e matite e dei miei dizionari. Il manoscritto si trovava già sul tavolo di quel cubicolo scarsamente illuminato, dove mi arrabbattai a tradurre fino alle dieci di sera, ora di chiusura.

Sì, non c’erano dubbi: quegli spagnoli affermavano di possedere un metodo per conseguire l’immortalità. Il manoscritto non faceva il minimo accenno al procedimento, ma si limitava ad affermare in continuazione che funzionava. Trovai ripetuta spesso l’immagine simbolica del «teschio sottostante al volto»: per essere un culto orientato verso la vita, sembrava fin troppo attirato dall’iconografia tombale. Forse si trattava di quella discontinuità essenziale, di quelle giustapposizioni discordi, di cui Ned fa grande uso nelle sue teorie estetiche.

Il manoscritto, comunque, diceva chiaramente che alcuni di quei monaci adoratori di teschi (se non tutti) vivevano da secoli. Oppure da millenni? Un passo ambiguo del Sedicesimo Mistero faceva pensare a un’epoca anteriore a quella dei Faraoni.

Evidentemente la loro longevità destava il rancore dei mortali che ne venivano a conoscenza, contadini o nobili che fossero: spesso avevano dovuto cambiare sede, cercando ogni volta un luogo in cui potessero esercitare in pace le loro pratiche.

Dopo tre giorni di duro lavoro avevo la traduzione riveduta e corretta dell’85 per cento del testo e una stesura preliminare del rimanente. Feci tutto da solo, salvo consultare il professor Vasquez Ocaña per qualcuna delle frasi più difficili. (Naturalmente non gli feci parola del manoscritto; e quando mi chiese se avevo scoperto il nascondiglio della raccolta Maura Gudiol, diedi una risposta vaga).

A questo punto pensavo ancora che tutta la faccenda fosse solo un’affascinante fantasia. Da ragazzo avevo letto Orizzonte perduto; ricordavo bene Shangri-La, il monastero celato sull’Himalaya, i monaci che praticavano lo yoga e respiravano aria pura, la meravigliosa e sconvolgente frase «Lei è ancora vivo, Padre Perrault!».

Roba del genere non la si prende certo sul serio. Con gli occhi della mente vidi la mia traduzione già pubblicata, ad esempio su Speculum, e accompagnata, da adeguati commenti sulla credenza medioevale nell’immortalità e da riferimenti alle leggende del Prete Giovanni, a Sir John Mandeville, ai romanzi del ciclo alessandrino. La Confraternita dei Teschi; i Custodi dei Teschi, ossia i grandi sacerdoti del culto; l’Iniziazione alla quale devono sottoporsi contemporaneamente quattro candidati, due soli dei quali sopravviveranno; l’accenno ad antichi misteri giunti a noi attraverso i millenni; be’, tutto ciò poteva ben essere una novella narrata da Sheherazade, no?

Mi presi la briga di consultare attentamente la versione delle Mille e una notte fatta da Sir Richard F. Burton (tutti e sedici i volumi) pensando che forse questa favola di teschi era stata portata in Catalogna dai saraceni, nell’ottavo o nono secolo. Niente da fare. Qualunque cosa fosse ciò che avevo trovato, non derivava dalle Mille e una notte. Per caso faceva parte del ciclo di Carlomagno? O magari era un’opera ancora sconosciuta della letteratura romanza?

Consultai mastodontici cataloghi di motivi mitologici medioevali. Niente. Mi addentrai ancora di più nel passato. In una sola settimana divenni un esperto dell’intera letteratura relativa all’immortalità e alla longevità. Titone, Matusalemme, Gilgamesh, il pescatore Glauco, gl’immortali seguaci del Tao…

Ed ecco l’illuminazione interiore, il pulsare della fronte, l’urlo selvaggio che fece accorrere gli assistenti da tutti gli angoli della biblioteca.