E io? Irritabile. Labbra secche, gola secca. Lo scroto rigido, come mi succede sempre quando sono molto ma molto nervoso. Continuavo a contrarre e rilasciare i glutei. E se la Casa dei Teschi non esiste? Peggio ancora: se esiste? In tal caso la mia complessa danza oscillante avrà fine: o dovrò prendere posizione, arrendermi all’evidenza, consegnarmi anima e corpo alle cerimonie dei Custodi… oppure, con una risata di scherno, sparire. Che cosa farò? Il Nono Mistero occhieggia sempre fra le quinte, minaccioso e tentatore. Le eternità devono essere controbilanciate dalle estinzioni. Due vivranno per sempre, due moriranno subito. Questa frase la sento vibrare di una musica dolce e tremula; la vedo luccicare in lontananza; mi pare di udirla cantare in toni seducenti fra le alture spoglie. La temo, e tuttavia non resisto davanti alla possibilità (benché rischiosa) che offre.
Alle nove in punto ci presentiamo alla sede del giornale. È ancora Timothy, che parla: i suoi modi disinvolti, sicuri, da membro delle classi superiori, gli consentono di andare via liscio in ogni genere di situazione. I vantaggi della discendenza aristocratica!
Timothy dichiara che siamo studenti universitari impegnati in ricerche per una tesi sulla vita monastica contemporanea; il che (attraverso la centralinista e un cronista) ci conduce a un caposervizio il quale legge il nostro ritaglio e dice di non sapere nulla su un monastero nel deserto (sconforto!); però, aggiunge, c’è un suo redattore che è sempre al corrente di tutte le «comuni», sedi di culto e simili che s’installano ai margini della città (speranza!). E dov’è, ora, costui? Oh, è in vacanza (disperazione!). Quando sarà di ritorno a Phoenix? Veramente non è andato via (speranza rinata!). Passa le vacanze a casa. Potrebbe essere disposto ad aiutarci. Dietro nostra richiesta, il caposervizio fa una telefonata e ci procura un invito alla casa di questo suo specialista in bislaccherie. — Abita oltre via casa di Betania, subito dopo la Centrale, all’isolato 6400. Sapete dov’è?
Sono dieci minuti di auto. Ci lasciamo alle spalle il centro ancora addormentato e filiamo a nord attraverso l’animato quartiere degli affari, tutto grattacieli di vetro e immensi centri-acquisti, dal quale passiamo in un rione di sconcertanti case moderne seminascoste da giardini di fitta vegetazione tropicale. Poi un breve tratto fino a una zona residenziale più modesta, e finalmente arriviamo all’abitazione dell’uomo che ha la risposta per noi.
Si chiama Gilson. Quarant’anni, molto abbronzato, occhi azzurrissimi, fronte alta e lucida. Tipo simpatico. Tenersi al corrente sulle comunità bislacche non è per lui una mania ma un semplice hobby: Gilson non è uomo da avere manie. Sì, conosce la Confraternita dei Teschi, anche se lui usa l’espressione «Padri messicani». Non c’è stato di persona, ma ha parlato con un tale del Massachusetts che c’era andato: forse lo stesso che ha scritto il famoso articolo.
Timothy gli domanda se sa indicarci dove si trova il monastero. Gilson ci fa entrare: casa piccola, pulita, tipico arredamento sudoccidentale (tappeti Navaho sulle pareti, sugli scaffali della libreria una mezza dozzina di vasi Hopi color crema e arancione). Gilson prende una carta di Phoenix e dintorni. — Adesso siete qui — dice, indicando sulla carta. — Per uscire dalla città prendete in questo punto la superstrada del Canyon Nero e andate a nord. Seguite i cartelli per Prescott, ma senza arrivare fin là. Infatti in questo punto, vedete?, due o tre chilometri fuori città, lasciate la superstrada. Ma avete una carta? Ecco, vi segno la rotta. Adesso prendete questa strada qui, poi girate in questa, ecco, verso nordest, la seguite per un nove o dieci chilometri… — Gilson traccia sulla nostra carta una serie di zigzag e finalmente una grossa X.
— No — dice — non è qui che si trova il monastero. Questo è il punto in cui dovete lasciare la macchina e proseguire a piedi. La strada diventa un semplice viottolo: non ci passa neanche una jeep, ma quattro giovanottoni come voi non troveranno nessuna difficoltà. Fate cinque o sei chilometri, sempre verso est, e ci siete.
— E se non lo troviamo? — domanda Timothy. — Il monastero, non il viottolo.
— Non può sfuggirvi. Ma se arrivate alla riserva indiana Forte McDowell, vorrà dire che siete andati un po’ troppo avanti. E se vedete il lago Roosevelt, vorrà dire che siete andati veramente troppo avanti.
Quando ci congediamo, Gilson chiede di fermarci da lui, sulla strada del ritorno, per raccontargli cos’abbiamo scoperto. — Mi piace tenere aggiornati i miei schedari — spiega. — Vorrei andarci di persona a dare un’occhiata, ma… sapete com’è, un sacco di cose da fare e così poco tempo per farle.
Certo, replichiamo noi. Gli riferiremo tutto dall’A alla Z.
In auto. Oliver guida; Eli fa l’ufficiale di rotta, con la carta distesa in grembo. Verso ovest, per prendere la superstrada del Canyon Nero. Un’arteria ampia, bollente nell’afa di metà mattina. Niente traffico, a parte qualche enorme camion. Puntiamo a nord.
Presto tutte le nostre domande troveranno risposta; e senza dubbio ne nasceranno altre. La nostra fede (o forse, semplicemente, la nostra ingenuità) sarà compensata. In questo caldo torrido, mi viene un brivido gelido. Odo salire dall’orchestra una risonante ouverture, sinistra, wagneriana, con le tube e i tromboni che producono una cupa melodia vibrante. Il sipario sta salendo, benché io non sappia con certezza se questo è il primo atto o l’ultimo.
Non ho più dubbi sull’esistenza del monastero. Gilson è stato categorico: non si tratta di un mito, di un’ulteriore manifestazione dell’esigenza di spiritualismo che questo deserto sembra destare nell’umanità. Troveremo il monastero; e sarà quello giusto, il diretto discendente di quello descritto nel Libro dei Teschi. Un altro brivido delizioso: e se ci trovassimo a faccia a faccia con l’autore in persona di quell’antico manoscritto, millenario, senza tempo? Tutto è possibile, se si ha fede.
Fede. Quanta parte della mia vita è stata foggiata da questa parolaccia?
Ritratto dell’artista da mocciosetto.
Il collegio dei gesuiti, col tetto che faceva acqua, il vento che sibilava attraverso le finestre bisognose di stucco, le suore pallide e impalate che ci guatavano arcigne dai loro occhiali severi. Il catechismo. I bambini ben pettinati, con la camicia bianca e la cravatta rossa. Padre Burke, che ci faceva la dottrina. Paffuto, giovane, volto roseo, le eterne goccioline di sudore sul labbro, una piega di carne morbida sopra il collarino romano. Sui venticinqueventisei anni: il suo celibato lottava contro gli ancora indomiti pruriti della giovinezza, e durante le meditazioni notturne lui doveva certo chiedersi se ne valeva la pena. A Ned (anni sette), Padre Burke appariva come l’incarnazione dello Spirito Santo, un’incarnazione enorme e feroce. Aveva sempre in mano una bacchetta: e la usava, anche!
Ed ecco che chiama me. Mi alzo, tremante, con una gran voglia di farmela addosso e scappar via. Mi cola il naso. (Mi colava in continuazione, da piccolo: sono andato avanti così fino ai dodici anni. Il ricordo che ho della mia infanzia è imbrattato da Una macchia scura: una candela di moccio impolverato. Poi la pubertà ci ha messo il tappo).
Con una rapida passata del dorso della mano, mi tolgo dal naso il moccio penzolante.
— Non fare lo schifoso! — grida Padre Burke, e i suoi occhi di un azzurro sbiadito mandano lampi.
Dio è amore, Dio è amore; ma Padre Burke cos’è?