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Di tanto in tanto Ned rompe il silenzio per spiegarci qualcosa sulla vita vegetale. Non mi ero mai reso conto fino a che punto è appassionato di botanica.

Qui ci sono pochissimi di quegli enormi cactus verticali, i saguaro; ne ho scorti tre o quattro, in lontananza, alti quindici o venti metri. Ce n’è a migliaia, invece, di un coso bislacco alto circa due metri, con un grigio tronco legnoso pieno di nodi e un sacco di grappoli penzolanti, composti di spine e di strani affanni verdi di forma irregolare. Ned lo chiama cholla «grappolo di spine», e ci avverte di stargli alla larga. Le spine sono acuminate. Perciò lo scansiamo; ma c’è un altro cholla, il cholla «istrice», che non è così facile da scansare.

Questo cholla «istrice» è una carogna. Un cespuglietto ispido alto un paio di spanne e costellato di migliaia di spine pelose color paglia; se fai tanto di guardarlo storto rizza le spine e ti allunga una puntura multipla. Giuro che è così. I miei stivali sono ricoperti di aculei.

Il cholla «istrice» si spezza facilmente, e i frammenti se ne vanno a spasso per conto loro: ne vediamo dappertutto, e moltissimi anche sul viottolo. Ned dice che ogni frammento finisce col mettere radici e diventare una nuova pianta completa. Dobbiamo stare sempre attenti a dove mettiamo i piedi, per paura di calpestarne uno. E non si può neanche allontanarli con un calcio.

Io ci provo, e il frammento mi si attacca allo stivale, e io allungo la mano per toglierlo e me lo ritrovo conficcato nei polpastrelli. Un centinaio di aghi mi pungono contemporaneamente. E bruciano come il fuoco. Mi metto a urlare. Ned mi toglie le spine a una a una, mediante due rametti. Le dita mi bruciano ancora. Si vedono, affondati nella carne, tanti puntolini scuri. Mi chiedo se faranno infezione.

Comunque c’è una gran quantità di altri tipi di cactus: cactus «barile», opuntia, più vari altri che neppure Ned riesce a identificare. E alberi frondosi muniti di aculei, e mesquite, e robinie. Tutte le piante, qui, sono ostili. Non toccarmi, dicono; non toccarmi, se no te ne pentirai.

Vorrei essere altrove, in qualsiasi altro posto. E invece eccomi qui che vado avanti e avanti e avanti. Scambierei volentieri l’Arizona col Sahara, addirittura, mettendoci per giunta metà Nuovo Messico. Ma quanto ancora dovremo camminare? Fino a dove salirà, il caldo?

— Ehi, guardate lì! — esclama Eli, indicando. Sulla sinistra del viottolo seminascosto in una gialla macchia di cholla: un macigno tondo grande come un torso umano, di pietra scura e ruvida diversa in consistenza e composizione dalla locale arenaria color cioccolata. È una roccia nera, vulcanica: basalto, granito, qualcosa del genere.

Eli si accuccia accanto al masso, e con un rametto comincia ad allontanare il cactus.

— Vedete gli occhi? — dice. — Il naso? I denti?

Ha ragione. Si scorgono benissimo le orbite, grandi e profonde. Un’enorme cavità triangolare: la fossa nasale. E a livello del suolo una fila di grossi dentoni che mordono il terreno sabbioso: la mascella.

Un teschio.

Sembra vecchio di mille anni. S’intravedono tracce di scultura meno grossolana, indicanti zigomi, arcate sopraccigliali e altri lineamenti; ma in massima parte sono state cancellate dall’azione del tempo. È un teschio, comunque. Un inconfondibile teschio. Un segnavia, per avvisare che siamo sulla strada giusta e che quanto cerchiamo non dista ormai più molto… oppure per avvisare che questa è l’ultima possibilità di tornare indietro.

Eli rimane immobile a lungo, esaminando il teschio. Così pure Ned e Oliver. Ne sono affascinati.

Una nube passa sopra di noi, ombreggiando il macigno, alterando i lineamenti di quel volto di morte; e io ho l’impressione che le orbite si girino verso di noi, fissandoci. Il caldo mi ha dato alla testa.

Eli dice: — Probabilmente è precolombiano. L’hanno portato con sé dal Messico, immagino.

Scrutiamo davanti a noi, nella foschia dell’afa. Tre enormi saguaro, simili a colonne, c’impediscono la visuale. Bisogna oltrepassarli. E poi? La Casa dei Teschi? Senza dubbio. D’improvviso mi chiedo che cosa ci faccio, qui, perché mai mi sono lasciato trascinare in questa follia. Ciò che era sembrato uno scherzo, una burla, ora appare fin troppo reale.

Vivere in eterno! Cavolo, come può essere? Sprecheremo giorni e giorni cercando a destra e a sinistra. Che avventura pazzesca! Teschi in mezzo alla strada, cactus, afa, sete… Due devono morire per consentire agli altri due di vivere per sempre. Tutto il guazzabuglio mistico di cui ha cianciato Eli mi appare ora riassunto in quella sfera di pietra nera e ruvida, così solida, così innegabile.

Mi sono abbandonato a qualcosa che è al disopra della mia comprensione e in cui può esserci pericolo per me. Ma ormai non posso più tornare indietro.

22

Eli

E se la Casa dei Teschi non c’è? Se arriviamo alla fine del viottolo e scopriamo che esiste soltanto un invalicabile muro di spine e aculei?

Mi aspetto proprio una cosa del genere, devo confessarlo. Mi aspetto che l’intera spedizione si riveli un fallimento unico, un ulteriore fiasco di Eli lo schmeggege. Che il teschio lungo il viottolo risulti un falso indizio, il manoscritto una favola irreale, l’articolo sul giornale una beffa, la X sulla nostra carta un semplice scherzo insulso.

Davanti a noi nient’altro che cactus e mesquite, una landa squallida, un pezzo di deserto in cui nemmeno i porci si degnerebbero di venire a cagare.

E allora che cosa farò?

Mi rivolgerò con grande dignità ai miei stremati compagni e dirò: — Signori, sono stato ingannato, e voi con me. Abbiamo cercato la luna nel pozzo. — Con un mezzo sorrìso di scusa agli angoli della bocca.

E loro mi afferreranno con calma, senza cattiveria, avendo sempre saputo che doveva andare a finire così; mi spoglieranno, mi ficcheranno nel cuore un palo di legno, m’inchioderanno a un saguaro, mi schiacceranno a morte sotto rocce piatte, m’infileranno negli occhi spine di cholla, mi bruceranno vivo, mi seppelliranno fino al petto in un formicaio, mi castreranno a unghiate, salmodiando solennemente per tutto il tempo: schmeggege, schlemihl, schlemazel, schmendrick, schlep!

Io accetterò con pazienza la mia punizione ben meritata. Non sono nuovo, all’umiliazione. Un disastro non mi lascia mai sorpreso.

Umiliazione? Disastro? Come nel fiasco con Margo? La più recente delle mie sconfitte di una certa gravità. Mi brucia ancora.

Ottobre scorso, all’inizio del semestre, una sera di pioggia e nebbia. «Erba» di prim’ordine, giunta a Ned attraverso il sottobosco degli omosessuali. Timothy, Ned e io ci passavamo a vicenda la pipa. Oliver, naturalmente, si asteneva, e invece andava centellinando tutto compito un vinaccio rosso da quattro soldi. Sullo sfondo risuonava un quartetto, superando il tamburellare della pioggia.

Quando la droga cominciò a farci levitare, Beethoven ci fornì un accompagnamento mistico: inesplicabilmente si aggiunse un secondo violoncello, perfino un oboe in qualche battuta, e un fagotto trascendentale che faceva eco a i violini. La musica pentadimensionale degli ubriachi e dei drogati. Ned aveva ragione: era proprio un’«erba» di prim’ordine.

E a un certo punto io mi sentii scivolare in una nube di disinibizione e cominciai a parlare, ad aprirmi, a svelare ogni mio pensiero più recondito, e d’un tratto dissi a Timothy che la cosa che mi dispiaceva di più era di non aver mai fatto l’amore con una ragazza veramente bella. Timothy, pieno di comprensione, mi domandò quale ragazza considerassi veramente bella. Io rimasi in silenzio, esaminando le alternative. Ned, per essere utile, suggerì Raquel Welch, Catherine Deneuve, Lainie Kazan. Infine, in uno slancio di splendida franchezza, buttai fuori: — Margo la considero veramente bella.