Margo. La Margo di Timothy. La dea goyishe, la shikse d’oro.
Ciò detto, nella mia mente ormai satura di hashish udii risuonare una rapida serie di secche e cadenzate battute di dialogo, un prolisso fluire di parole; quindi il tempo tornò indietro — come fa quando è sotto l’influsso dell’«erba» — e io udii echeggiare tutte le mie battute, ognuna al posto giusto.
Timothy mi aveva chiesto, con calore, se Margo mi avesse acceso i sensi. Con calore pari al suo, gli assicurai di sì. Allora lui volle sapere se facendo l’amore con Margo mi sarei sentito meno inetto, più completo. Esitando, chiedendomi a che gioco giocava, risposi con vaghe perifrasi, e sorprendentemente gli sentii dire che avrebbe organizzato tutto per la sera seguente. Organizzato cosa?, domandai. La faccenda di Margo, rispose. Mi avrebbe concesso Margo, come atto di carità cristiana.
— E lei vorrà…
— Certo che vorrà. Ti trova simpatico.
— Tutti quanti ti troviamo simpatico, Eli. — Questo era Ned.
— Ma io non… lei non… come… cosa…
— Te la cedo in prestito — disse Timothy. Un gran signore che elargisca la propria munificenza. — Non posso permettere che i miei amici se ne vadano in giro frustrati e con brame insoddisfatte. Domani alle otto, da lei. Le dirò di aspettarti.
— Mi puzza d’imbroglio — dissi, facendo il muso. — Troppo facile. Irreale.
— Non essere fesso. Prendila come un’esperienza mediata. Un po’ come vedere un film, solo che sarà una cosa più intima.
— E più tangibile — aggiunse Ned.
— Mi stai pigliando in giro?
— Parola di boyscout: Margo è tua!
Timothy attaccò a descrivermi le preferenze di Margo a letto, le sue zone erogene, i piccoli segnali usati da loro due. Io colsi lo spirito della faccenda, presi a librarmi sempre più in alto, mi misi a superare con mie fantasie scabrose le descrizioni grafiche di Timothy.
Naturalmente un paio d’ore dopo, quando tornai su questa terra, mi convinsi che Timothy mi aveva preso in giro, e questo mi gettò in un abisso tenebroso.
Io avevo sempre pensato che i tipi come Margo non erano per me. I vari Timothy si sarebbero portati a letto intere brigate di Margo, ma io non ne avrei mai avuta una sola.
L’adoravo da lontano, Margo. La shikse per antonomasia, il fiore dell’umanità ariana, snella e con le gambe lunghe, cinque centimetri più alta di me (sembra così grande, la differenza, quando è la ragazza a essere più alta!), serici capelli d’oro, maliziosi occhi azzurri, naso piccolo e all’insù, labbra larghe e frementi. Una ragazza forte, piena di vita, bravissima giocatrice di pallacanestro (lo stesso Oliver ammirava la sua abilità), studentessa modello, mente agile e portata allo scherzo. Insomma una creatura terrificante, tanto perfetta da lasciare istupiditi; una di quelle femmine immacolate che la nostra aristocrazia genera in così gran numero, nate per governare serenamente la tenuta di campagna o per pavoneggiarsi nella Quinta Strada col barboncino al guinzaglio.
Margo tutta per me? Il mio corpo peloso e sudato avrebbe coperto il suo? La mia guancia ispida si sarebbe strofinata sulla sua pelle serica? Sì, e i rospi si sarebbero accoppiati con le comete! A Margo io dovevo apparire sudicio e grossolano, il penoso rappresentante di una specie inferiore. Qualunque relazione fra noi sarebbe stata innaturale: una lega di ottone e argento, un miscuglio di carbone e alabastro. Eliminai dalla mia mente l’intero progetto.
Ma il giorno dopo, durante l’intervallo, Timothy mi rammentò il mio appuntamento. Impossibile, replicai; e addussi sei rapide scuse (lo studio, un esercizio da fare, una traduzione difficile, eccetera).
Timothy spazzò via i miei deboli tentativi. Alle otto nel suo appartamento, disse.
Mi sentii travolgere da un’ondata di terrore. — Non posso — insistetti. — Tu la stai prostituendo, Timothy. Cosa dovrei fare: entrare, sbottonarmi i pantaloni e saltarle addosso? No, non funzionerebbe in nessun modo. Non puoi mutare una fantasia in realtà semplicemente agitando la tua bacchetta magica.
Timothy si strinse nelle spalle, e io ritenni conclusa la faccenda.
Quella sera, Oliver doveva allenarsi alla pallacanestro. Ned se ne andò al cinema. Verso le sette e mezzo, Timothy si congedò. Un salto in biblioteca, disse, ci vediamo alle dieci. Io rimasi tutto solo nel nostro appartamentino. Senza sospettare di nulla. Indaffarato con le mie carte.
Alle otto sento girare una chiave nella serratura: entra Margo, con un sorriso ammaliante. Da parte mia, panico e costernazione.
— Timothy c’è? — domanda lei; e intanto, senza parere, richiude a chiave la porta.
Il cuore mi rimbomba in petto. — In biblioteca — biascico. — Torna alle dieci. — Non so dove nascondermi.
Margo sporge le labbra in un finto broncio. — Ero sicura che l’avrei trovato qui. Tanto peggio per lui. Tu hai molto da fare? — Un’ammiccatina di quegli occhioni azzurri e luminosi, e si abbandona dolcemente sul divano.
— Sto facendo questo esercizio — rispondo. — Sulle forme irregolari dei verbi…
— Affascinante! Di’, vuoi una cicca?
Di colpo capisco. Si sono messi d’accordo lei e Timothy. Una cospirazione per farmi felice, che io lo voglia o no.
Mi sento trattato come un marmocchio, strumentalizzato, beffeggiato. Dovrei ordinarle di andarsene? No, schmendrick, non fare il fesso. È tua per due ore. Al diavolo queste stravaganze morali! Il fine giustifica i mezzi, no? Questa è la tua unica possibilità, e non ne avrai mai più un’altra.
Mi dirigo al divano, con un’aria da dongiovanni (Eli un dongiovanni, sì!). Margo ha due sigarette polpose, confezionate da professionista. Ne accende tranquillamente una, tira una boccata forte, me la tende. Mi trema la mano, manca poco che con la punta incandescente le scotti il braccio.
È «erba» grezza. Mi viene un accesso di tosse, e lei mi batte la schiena. Schlemihl. Schlep. Margo aspira e mi fissa sbattendo le palpebre, con un’espressione di godimento. A me, invece, non succede nulla: sono troppo teso, e l’adrenalina che sto producendo brucia la droga prima che possa avere effetto. In breve la sigaretta si riduce a un mozzicone. Margo, che ha l’aria di essere già partita, mi tende l’altra. Io faccio segno di no. — Dopo — dico.
Lei si alza e gironzola per la stanza. — Qui dentro fa spaventosamente caldo, non trovi? — Che tecnica trita! Una ragazza intelligente come Margo potrebbe trovare di meglio.
Margo si stira. Sbadiglia. Indossa calzoncini corti e un bolerino succinto che le lascia scoperto lo stomaco piatto e abbronzato. Si vede benissimo che non porta né reggiseno né mutandine: noto la protuberanza dei capezzoli, e i calzoncini aderentissimi alle natiche piccole e tonde non mostrano la minima traccia di tessuto sottostante. (Ah, Eli, fantastico osservatore, tenero e abile manipolatore di carne femminile!).
— Che caldo! — ripete Margo, con voce un po’ impastata. E via il bolerino. Con un sorriso innocente, come per dire: siamo vecchi amici, non dobbiamo tormentarci con sciocchi tabù, perché le tette dovrebbero essere coperte più dei gomiti?
I suoi seni sono medio-grandi, pieni, alti, mirabilmente sodi, senza dubbio i più splendidi che io abbia mai visto. Cerco di guardarli senza averne l’aria. Al cinema è più facile, non si è coinvolti personalmente con ciò che avviene sullo schermo.
Margo comincia a parlare di astrologia: per mettermi a mio agio, suppongo. La congiunzione di questo pianeta con quello, la casa tale… Io riesco solo a bofonchiare qualcosa. Piano piano, lei scivola nell’argomento della chiromanzia.