— Di solito le zingare truffano — dice, tutta seria — ma questo non significa che il concetto di base sia infondato. Capisci, tutta la nostra vita è già programmata nelle molecole di DNA, le quali sono anche responsabili dei segni sul palmo della mano. Fammi dare un’occhiata alla tua.
Mi prende la mano, mi attira accanto a sé. Come mi sento idiota, ad aver bisogno di essere adescato in tal modo! Faccio proprio la figura del vergine, nell’atteggiamento se non nell’esperienza pratica.
Margo si china sul mio palmo, titillandomi. — Questa, vedi, è la linea della vita. Oh, com’è lunga! Molto lunga! — Io lancio sbirciatine furtive alle sue tette mentre lei si esibisce nel numero di chiromanzia. — E questo è il monte di Venere. Vedi questa linea che si piega qui? Mi rivela che tu sei capace di passioni profonde ma che le reprimi, le soffochi. Non è vero?
D’accordo. Farò il tuo gioco, Margo. Di colpo il mio braccio le cinge le spalle, la mia mano striscia verso il suo seno.
— Oh, sì, Eh, sì, sì! — Con calore forzato.
Un abbraccio; un bacio appiccicoso. Le sue labbra si aprono e io faccio quel che devo fare. Ma non provo nessuna passione, né profonda né viceversa. Tutto ciò mi sembra formale, un minuetto, una cosa programmata dall’esterno: non riesco a collegarla al concetto di fare l’amore con Margo. Irreale, irreale, irreale. Non provo desiderio neppure quando lei scivola via da me e si toglie i calzoncini, rivelando anche aguzze, solide natiche da ragazzino, fitti riccioli dorati.
Margo mi sorride, mi chiama, m’invita. Per lei la faccenda non è certo più apocalittica di una stretta di mano, di un bacetto sulle guance.
Per me, invece, è una catastrofe cosmica. Eppure dovrebbe essere facilissimo. Giù le braghe, sopra di lei, dentro di lei, tic-tuc-tac, aaaahh! Ma io soffro di intellettualismo sessuale: sono troppo impregnato del concetto di Margo come irraggiungibile simbolo di perfezione per rendermi conto che Margo è raggiungibilissima e non è poi così perfetta (la pallida cicatrice dell’appendicectomia; sottili smagliature ai fianchi, le morene frontali di una corporatura più adiposa in età prepubere; cosce un filino troppo sottili).
Ma poi me ne rendo conto e mi butto. Sì, mi spoglio, e sì, corriamo sul letto, e sì, non ho erezione, e sì, Margo mi aiuta, e infine la libidine trionfa sull’imbarazzo e io divento tutto duro e palpitante come si conviene, e poi, come un toro selvaggio delle pampas, mi getto su di lei, afferrandola, abbrancandola, spaventandola con la mia ferocia praticamente usandole violenza… per ritrovarmi impotente nel momento critico della penetrazione. E poi… oh, sì, una balordaggine dopo l’altra, una goffaggine dopo l’altra, Margo alternativamente atterrita e divertita e sollecita, e infine ecco la consumazione, seguita subito dall’eiaculazione, seguita da baratri di autodisprezzo e da abissi di disgusto.
Non riesco neanche a guardarla in faccia. Rotolo via da lei, nascondo la testa nel cuscino, ricopro d’ingiurie me stesso, Timothy, D. H. Lawrence.
— Posso fare qualcosa per te? — mi domanda Margo, dandomi un colpetto sulla schiena sudata.
— Vai via, per favore — le dico. — Per favore. E non dire niente a nessuno.
Ma naturalmente lei ha raccontato ogni cosa. E tutti hanno appreso tutto. La mia goffaggine, la mia incompetenza più che ridicola, i miei cento complessi culminanti alla fine in cento tipi diversi d’impotenza. Eli lo schmeggege, che ha sciupato la sua grande occasione con la più fantastica ragazza che abbia mai avuto la ventura di sfiorare. Un altro della sua lunga serie di fiaschi elaborati con somma cura.
E un altro fiasco ancora potremmo trovarcelo davanti proprio adesso, mentre arranchiamo in questa cactusville avvicinandoci alla delusione definitiva, nel qual caso i miei tre compagni, giunti così alla fine di quel viaggio, direbbero: — Cos’altro potevamo aspettarci, da Eli?
Ma la Casa dei Teschi c’è.
Il viottolo segue una curva leggera, conducendoci in macchie ancora più fitte di cholla e mesquite; finché, tutto d’un tratto, ci troviamo al limitare di un ampio spiazzo sabbioso.
Da sinistra a destra si stende una fila di neri teschi di basalto, simili a quello che abbiamo incontrato lungo il viottolo ma molto più piccoli, all’incirca delle dimensioni di un pallone da pallacanestro, e ficcati nella sabbia a intervalli di un mezzo metro. All’estremità della fila di teschi, una cinquantina di metri più in là, vediamo la Casa dei Teschi, accovacciata nel deserto come una sfinge: una costruzione abbastanza grande, a un piano solo, col tetto piatto e le pareti rivestite di intonaco rustico color giallobruno. Sette colonne di pietra bianca decorano la facciata, priva di finestre.
L’effetto di assoluta sobrietà è attenuato soltanto dal fregio che corre lungo il frontone: teschi in bassorilievo, che presentano il profilo sinistro. Guancia incavata, narice rientrante, enorme occhio tondo. Bocca spalancata in un orrendo sogghigno. I denti, scolpiti con cura, sembrano sul punto di affibbiare un morso feroce. E la lingua — ah, che tocco sinistro, un teschio con la lingua! — è piegata in un’elegante e orrenda curva ad A; la punta esce appena dai denti, guizzando come la lingua biforcuta di un serpente.
Questi teschi sono decine e decine, ossessivamente identici, congelati in un’immobilità arcana, e uno dopo l’altro avanzano fino a scomparire dietro l’angolo della costruzione. Hanno quell’aria da incubo che riscontro nella maggior parte dell’arte messicana precolombiana. Sarebbero più appropriati, mi sembra, lungo il bordo di un altare su cui si usi tagliare dal petto ancora palpitante della vittima, con un coltello di ossidiana, il cuore ancora vivo.
L’edificio è a forma di U, con due ali che partono dal corpo centrale. Non vedo porte. Al centro dello spiazzo, però, una quindicina di metri davanti alla facciata dell’edificio, si vede un’apertura bordata di pietra, che dovrebbe condurre a un sotterraneo: sbadiglia, buia e misteriosa, simile all’ingresso del mondo degl’Inferi.
Comprendo subito che dev’essere il passaggio per accedere alla Casa dei Teschi. Mi avvicino e guardo dentro. Tenebre assolute. Dobbiamo farci coraggio e andare giù? Non sarebbe meglio aspettare che sbuchi qualcuno e c’inviti? Ma non sbuca nessuno, e il caldo è bestiale. Mi sento la pelle del naso e delle guance diventare sempre più gonfia e dolente: è già mezza giornata che il mio pallore invernale è esposto al sole del deserto.
Ci guardiamo in faccia, perplessi. Il Nono Mistero arde nella mia mente, e certo anche nella loro. Potremmo entrare benissimo, sì; ma poi ne torneremmo fuori solo in due. Chi sopravviverà, chi morirà?
Esamino di malavoglia quali potrebbero essere i candidati alla dipartita, soppesando a uno a uno i miei amici. Consegno rapidamente alla morte Timothy e Oliver, poi li ritiro, rivedo questo giudizio affrettato, sostituisco Oliver con Ned, Timothy con Oliver, Ned con Timothy, Timothy con me stesso, me stesso con Ned, Ned con Oliver, e via via, indeciso, senza concludere nulla.
La mia fede nella veridicità del Libro dei Teschi non è mai stata forte come ora. La mia certezza di trovarmi alle soglie dell’infinito non è mai stata più grande o più terrificante.
— Andiamo — dico con voce roca e tremula, e con qualche passo esitante mi porto sull’orlo dell’apertura. Una ripida scala di pietra conduce giù nel sotterraneo. Cinque, sei, sette gradini, e mi trovo in una galleria buia, larga ma bassa, non più di un metro e mezzo dal pavimento al soffitto. L’aria è freddissima. Qualche esile filo di luce mi consente di scorgere la decorazione delle pareti: teschi, teschi, teschi. Finora non abbiamo visto il minimo frammento d’iconografia mentre invece domina incontrastato il simbolo della morte.