Ned, da sopra, mi lancia una voce. — Che cosa vedi?
Io descrivo la galleria e dico a loro tre di seguirmi. Esitando, strascicando i piedi, scendono tutti: Ned, poi Timothy, infine Oliver. Io abbasso la schiena e mi avvio in testa.
L’aria si fa sempre più gelida. Non si vede più niente, salvo il tenue bagliore rossastro dell’entrata. Cerco di non perdere il conto dei miei passi. Dieci, dodici, quindici. Ormai dovremmo essere sotto l’edificio.
Improvvisamente mi trovo davanti una barriera di pietra levigata: una lastra unica, che blocca interamente la galleria. Me ne accorgo all’ultimo istante, cogliendo un riflesso biancastro della debolissima luce, e mi arresto di colpo prima di sbatterci il muso.
Un cul di sacco? Sì, naturalmente. Mi aspetto di udire dietro di noi il clangore di una lastra di pietra da venti tonnellate che cala sull’ingresso della galleria, lasciandoci lì in trappola a morire di fame o asfissiati mentre negli orecchi ci risuonano scrosci di risate mostruose.
Ma non succede nulla di così melodrammatico. Tanto per provare, premo la mano sulla fredda lastra di pietra che ci blocca il cammino… e la lastra (sembra di essere nel Palazzo Incantato, a Disneyland) si apre, ruotando con estrema dolcezza. È bilanciata perfettamente: basta un minimo tocco per farla muovere.
È giusto, rifletto tra me e me, che l’ingresso nella Casa dei Teschi debba avvenire in questo modo da opera lirica. Mi aspetterei anche un triste accompagnamento di corni e tromboni, e un coro di bassi che intona il Requiem a rovescio: Pietatis fons, me salva, gratis salvas salvandos qui, majestatis tremendae rex.
In alto si vede un’apertura. Ci rimettiamo in cammino, sempre a schiena piegata. Un’altra scala. Su per i gradini.
Sbuchiamo a uno a uno in un’immensa stanza quadrangolare dalle pareti di ruvida arenaria chiara. Non c’è soffitto: una dozzina o giù di lì di grosse travi nere, a intervalli di un metro, lasciano entrare la luce del sole e il caldo soffocante. Il pavimento è di un’ardesia verde e porpora, lucente, quasi oleosa. Al centro c’è una fontana in giada verde, delle dimensioni di una vasca da bagno, dalla quale si erge una figura umana alta poco meno di un metro: la testa è un teschio, fra le cui mascelle sgorga un filo d’acqua che ricade nella conca sottostante. Ai quattro angoli della stanza si trovano alte statuette di pietra, in stile maya o azteco: uomini al naturale, col naso fortemente ricurvo, labbra sottili e crudeli, enormi ornamenti appesi agli orecchi.
Sulla parete di fronte all’uscita della galleria sotterranea è praticata un’apertura che incornicia un uomo, talmente immobile che sulle prime prendo anche lui per una statua. Quando noi quattro siamo entrati tutti nella stanza, l’uomo dice, con una voce profonda e risonante: — Buongiorno. Io sono Fra Antonio.
È basso e tarchiato, non più di un metro e sessanta, e indossa solo un paio di stinti calzoni di cotone azzurro, tagliati a metà coscia. La sua pelle è fortemente abbronzata, quasi color mogano, e ha l’aspetto del cuoio di prima qualità. Il cranio, alto e dalla sommità tondeggiante, è del tutto calvo, senza neppure le usuali ciocche residue dietro gli orecchi. Il collo è corto e tozzo, le spalle larghe e possenti, il petto ampio, le braccia e le gambe molto muscolose: nel complesso da un’impressione di enorme forza e vitalità. Il suo aspetto generale e l’energia che promana da lui mi ricordano in maniera straordinaria Picasso: un uomo piccolo, solido, eterno, capace di resistere a qualsiasi cosa. Non ho la minima idea dell’età che può avere. Non è giovane, certo, ma è ben lungi dall’essere decrepito. Cinquanta? Sessanta? Un settantenne ben conservato? La sua caratteristica più sconcertante è appunto questa mancanza di età. Sembra che il tempo non l’abbia corroso… anzi, neppure sfiorato. Così, penso, è proprio come dovrebbe apparire un immortale.
Fra Antonio ci rivolge un sorriso caloroso, rivelando denti grandi e immacolati, e dice: — Ci sono soltanto io, ad accogliervi. Riceviamo pochissime visite, e non ne aspettiamo nessuna. Gli altri fratelli sono nei campi, e torneranno solo per le devozioni pomeridiane.
Parla in perfetto inglese, ma con un accento privo di vita: un accento IBM, per così dire. La sua voce è salda e musicale, il suo fraseggiare è calmo sicuro. — Consideratevi a casa vostra per tutto il tempo che vorrete rimanere. Abbiamo stanze per gli ospiti, e saremmo lieti di dividere con voi il nostro ritiro. Pensate di trattenervi per più di questo pomeriggio?
Oliver mi guarda. E anche Timothy. E Ned. Mi hanno nominato portavoce. Mi sento stringere la gola. L’assurdità, la pura irragionevolezza di quanto devo rispondere, sale a chiudermi le labbra. Le guance, bruciate dal sole, mi ardono ancora di più per la vergogna. Girati e scappa, girati e scappa, mi mormora all’orecchio una voce. Giù nella galleria. Fuggi. Fuggi. Fuggi, finché sei in tempo.
Riesco a emettere solo un roco monosillabo: — Sì.
— In tal caso occorrerà sistemarvi. Volete seguirmi, per favore?
Fra Antonio fa per lasciare la stanza; Oliver mi lancia un’occhiata furiosa. — Diglielo! — bisbiglia seccamente.
Diglielo. Diglielo. Diglielo. Avanti, Eli, parla. Cosa ti può capitare? Alla peggio ti sentirai ridere in faccia. Non sarà mica la prima volta, no? Perciò diglielo. Tutto quanto converge su questo momento: tutta la retorica, tutta l’autoconvinzione, tutte le fervide discussioni filosofiche, tutti i dubbi e i controdubbi, tutto il viaggio. Tu sei qui. Tu ritieni che questo sia il posto giusto. Perciò digli che cosa stai cercando. Diglielo. Diglielo. Diglielo.
Fra Antonio, avendo colto il bisbiglio di Oliver, si ferma e gira il capo verso di noi. — Sì? — dice garbatamente.
Lottando contro la vertigine che mi ha assalito, trovo infine le parole adatte: — Fra Antonio, deve sapere che… che noi abbiamo letto tutti il Libro dei Teschi…
L’ho detto.
La sua maschera d’incrollabile serenità gli scivola giù per un istante. Nei suoi occhi, scuri ed enigmatici, scorgo un breve lampo di… sorpresa? perplessità? confusione?
Ma il frate si riprende subito. — Davvero? — dice, con voce salda come prima. — Il Libro dei Teschi? Che titolo strano! Cosa sarà mai, questo Libro dei Teschi?
Ma la domanda vuole essere semplicemente retorica. Fra Antonio mi rivolge un sorriso luminoso, brevissimo: come un faro che attraversi per un attimo un fitto banco di nebbia. Poi, con un piccolo movimento delle dita per farci segno di seguirlo, esce tranquillamente dalla stanza.
23
Ned
Adesso abbiamo qualcosa di cui preoccuparci, ma almeno ci lasciano preoccupare con tutte le comodità. Una stanza personale per ciascuno, austera ma bella, confortevolissima.
La Casa dei Teschi è molto più grande di quanto appare dall’esterno: le due ali posteriori sono enormemente lunghe, e nell’intero complesso — escludendo eventuali altri locali sotterranei — ci saranno cinquanta o sessanta stanze. Nessuna di quelle che ho visto possiede finestre. Quelle centrali, che chiamerei stanze pubbliche, hanno il soffitto scoperto, ma le camere in cui vivono i frati sono completamente chiuse. Non ho visto ventilatori o tubazioni che indichino la presenza di un impianto di aria condizionata, ma quando si passa da una stanza senza soffitto a una priva di aperture sull’esterno si avverte un brusco abbassamento di temperatura, dal caldo torrido del deserto alla confortevolezza di una camera d’albergo.
L’architettura è semplice. Nude stanze rettangolari le cui pareti e il cui soffitto, di ruvida arenaria bruna non ricoperta da intonaco, sono privi di modanature o travi in vista o altri ammennicoli decorativi. Tutti i pavimenti sono di ardesia scura, e non ci sono tappeti. Il mobilio è un po’ scarso: la mia stanza offre soltanto un basso lettino di tronchi uniti mediante una grossa fune, e un cassone corto e tozzo (per riporre i miei averi, suppongo) in un durissimo legno nero magnificamente lavorato. La sobrietà generale è attenuata da una fantastica raccolta di bizzarre maschere e statuette (precolombiane, immagino) appese alle pareti, collocate agli angoli delle stanze, sistemate in nicchie: facce terrificanti, tutte angoli e superfici ruvide, magnifiche nella loro mostruosità.